PENSATE - In memoria di Aurelio Popoli


Un sostenitore dell’unicità. Questo sono sempre stato. Lo ripetevo alla noia. Forse esagerando nei toni. Cercavo di spingere il messaggio oltre quella coltre, statica, che è la vita di paese. Ogni persona è unica. Non esiste un individuo che si possa equiparare all’altro. Forse esiste qualcuno che abbia, nei tratti o nel carattere, qualche elemento di somiglianza. Eppure anche in quello si evidenzia la sua diversità. Quello che ci contraddistingue dagli animali è il cambiamento, l’evoluzione, ma soprattutto il ricordo. L’uomo si è evoluto e nell’evoluzione è già insito un cambiamento che è ancora in divenire. In ogni anima c’è una potenzialità. Come in ogni mente c’è una genialità. Non esistono geni ed ignoranti. Esiste solo chi riconosce quella potenzialità e la fa sua. Chi di quella potenzialità non se ne fa niente, perché vive la sua vita così com’è. Senza clamori. Così anche io, nel mezzo di questa duplice volontà, ho voluto creare la mia esistenza. Vissuta all’ombra di un campanile. Ad ogni suo rintocco, potevo sentire, forte e chiaro, l’eco della storia. Storia che si è impossessata di tutta la mia vita. Plasmata nelle pagine di un libro a me caro e sofferto. Ho cercato di fare, dell’insegnamento, il valore aggiunto alla mia unicità. Da quei rintocchi non sono mai fuggito. Rimasto dov’ero e dove mi trovo anche ora, che è l’ultima “ora” della mia vita. Non ho intenzione di fare testamento delle mie azioni. Di ricordare quali sono stati i miei passi sulla terra guardiese. Voglio solo tramandare un messaggio di amore. Un amore semplice. Che non ha pretese. Che spontaneamente si dovrebbe donare, senza chiederlo, né elemosinarlo. Amore che mi ha ricoperto e mi sta ricoprendo come un caldo piumone, allontanando il freddo. E quando la morte arriverà a chiamarmi per nome, risponderò come ad un appello in classe: presente! Per questo vi dico: Amate. Amate quello che siete. Amate voi stessi, ma amate chi da voi si discosta in tutto. Amate senza rifuggire la diversità di razza, classe o età. Amate l’uomo o la donna che vi stanno accanto. Di quell’amore non sarete mai privati. Di quell’amore avrete ricompensa. Se donerete amore, quello vi ritroverete nei momenti di grande dolore. Generare l’amore serve, ma serve, di più, coltivarlo ed accudirlo. Prendersene cura. Non basta mettere il seme nel terreno per far nascere una pianta. Serve la terra. Serve il calore della fioritura accudita. Come si accudisce una donna nel momento del parto. Serve l’acqua ed il suo giusto dosaggio. Né troppa, né poca. Serve la cura, la presenza. Solo da quello potrà nascere una pianta. Siate come siete ora, pieni di amore e di affetto. Curate i vostri cari. Non rimandate la vostra presenza. Il gelo che respirate nei periodi invernali non fatelo mai entrare nel vostro cuore. Dipanate la matassa della notte. Lasciatevi avvolgere dal sole. Prendete le ombre del crepuscolo e fatene fantocci. Esorcizzate la paura. Abbracciate il coraggio. Siate testimoni dei vostri affetti. Sorridete ai vostri nonni, ai vostri padri, alle vostre madri. Sorridete a quello che sarete domani. Ascoltateli. Fosse anche un inutile pensiero. Lasciateli guardare la vostra presenza. Non permettetegli di fissare l’assenza. E' l’uomo, dentro di noi, che chiede asilo. Che chiede di essere preso per mano e condotto fino all’ultimo passaggio del destino. Ricordatevi chi siete stati, ricordate il bambino che era stretto dentro di voi. Ricordate la voglia che aveva di giocare, sorridere, addormentarsi in un letto caldo. Ricordate chi siete stati. Ma pensate chi diverrete. Sia che finiate in un letto come questo, o che finiate i vostri giorni improvvisamente, chiedetevi come sarà. Come sarà morire nel ristoro dei propri cari. Come sarà morire senza nessuno che ti prenda per mano e accompagni la tua anima al trapasso. Tra i banchi di scuola, ai mie alunni, questo ho cercato di insegnare. Oggi quell’insegnamento mi sta visitando per l’ultima volta. Mi dice che tutto passerà in fretta. È il mio dottore. Lo conosco, mi conosce. Sa che ho paura. Non paura di morire, ma paura di abbandonare qualcuno. Così cura quella mia debolezza, prendendo per mano mia figlia. Abbracciandola stretta per non farla crollare dal dolore. Come lui altre braccia la stringono. Altri cuori la sostengono, asciugano le sue lacrime. Una giovane donna è seduta accanto al mio letto. Ha poggiato un rosario tra le mie mani. La sento pregare. Sento voci, parole, presenze. Quanta gente in questa stanza. Sembra una scuola. La mia scuola. Il vociare è prima inteso. Poi decresce. Lentamente diviene silenzio. Ora le parole non servono più a niente.    

Il canto delle Muse. I libri del mio tempo

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