Quello che non so di me. Antonietta Gnerre

Per spiegare la poesia di Antonietta Gnerre basterebbe fare una semplice analogia: le sue parole fluiscono meravigliose e vitali nello stesso modo in cui l'aria, attraverso il respiro, entra nelle nostre narici, discende nei polmoni e ci da nutrimento prezioso per altri momenti d'esistenza. 

E tutto avviene naturalmente, senza costrizione alcuna, spontaneamente, è necessità "unica" non mutuabile, che non può essere altrimenti. Dalla "normalità fisica" di questo atto, così essenziale alla nostra vita, trae spunto la conseguenza, immediata, di buttare fuori quello che è di troppo. Parimenti, come avviene nello scambio ossigeno-anidride carbonica, buono e cattivo, fuoriesce l'interiorità che ha bisogno di essere portata alla luce, data in pegno all'aria, alla leggerezza, per lasciare il dolore veicolare all'eterno e, magari, liberarsi di quei pesi, anche solo in parte, sino ad allora opprimenti. 

Pur tuttavia, nell'approntarmi alla scoperta della silloge di Gnerre, una domanda mi è sorta spontanea ed è stata, repentinamente, collegata titolo. Per quale ragione l'autrice ha scelto di dare questo incipit narrante alle sue poesie? Conoscendo la grande cultura di Antonietta la risposta mi è stata, sin da subito, chiara, prima ancora di addentrarmi nella successiva lettura. Parto col dire che "So di non sapere" è il paradosso socratico [attribuito a Socrate e pervenutoci attraverso il racconto di Platone] basato su un'ignoranza intesa come la consapevolezza di non conoscere definitivamente e a tal punto le cose che diventa il movente fondamentale del desiderio di conoscere. Furono proprio queste poche parole che, Socrate, pronunciò dinanzi alla giuria che lo condannò successivamente a morte e che rappresentarono un'aspra critica rivolta contro i sofisti, colore che “presumevano” di sapere, anzi, ne erano convinti. Se volessimo fare un parallelismo potremmo evidenziare che i sofisti erano come i tuttologi di oggi, persone che, su qualsiasi argomento dello scibile, presumono di sapere tutto ed hanno sempre qualcosa da dire. Un fenomeno, questo, che con i social sta raggiungendo dimensioni pericolosamente impressionanti. Ho voluto fare questo collegamento perché il “non sapere” è, anche in questo caso, un punto di partenza, e non un fine come molti suppongono, per ammettere la propria ignoranza. Come Socrate anche Antonietta sa bene da dove vuole partire: "la consapevolezza di non sapere è un invito a conoscere, ad indagare, per imparare, per andare oltre quel mondo ordinario del conosciuto. Chi crede di sapere ogni cosa segue uno schema prestabilito, in altre parole, non indaga, non sperimenta, non scopre, non conosce, non si pone domande e perciò rimane fermo, immobile, statico, attinge esclusivamente dalla propria memoria." Per questa ragione il non sapere è la "la forma più alta di pensiero" perché ben lungi da porsi come insegnamento apre un varco per scoprire un regno che non conosciamo davvero. Una volta liberati dai condizionamenti - dai serbatoi del nostro sapere o dalla memoria di ciò che immaginiamo di sapere e che non saranno mai abbastanza - riusciremo ad avere quel pensiero nuovo, aperto, anche fluido, che si discosta totalmente dal marmo delle più ottuse convinzioni.

Da questa chiara ammissione, da questo "svincolarsi dal sapere abbastanza" e che non è "mai abbastanza", c'è una dichiarazione d'indipendenza e di libertà di rivoluzionaria reminiscenza. Dalla consapevolezza della caducità della mente umana, troppo spessa vittima di saturi condizionamenti mnemonici, ecco che si apre l'originale dimensione della nostra poetessa, calata completamente nella Natura, da cui trae origine il suo mondo imponderabile e, allo stesso tempo, concreto, senza maschere di sorta, che ci permette di respirare con lei creando una sorta di simbiosi con il testo tale che termini e sintassi, legati dal filo rosso di quelle emozioni più intime, minuziosamente analizzate, ci svelano sentieri inesplorati eppure conosciuti ma che non sapevamo chiarire nei significati più reconditi. 

La Gnerre crea una "energia nuova" che riusciamo a fare nostra solo se ci impegniamo ad ascoltare ma anche, soprattutto, a interrogarci. Il focus è quindi tutto posto sulla domanda che ci sta di fronte; perché l’attenzione non sarà totale se cerchiamo una risposta. Per tale ragione, nel momento in cui riconosciamo, con ogni singola cellula di noi stessi, l'ignoranza davanti al mondo che ci circonda, non dovremo più fare affidamento alla memoria (ai nostri presunti bagagli di sapere) per trovare una risposta e, liberi dal condizionamento, da quella prigione, riusciremo ad avere l'esatta percezione, quella più immediata e diretta di tutto quello che sta oltre...ed è pronto per essere scoperto. Cosa che vale finanche per gli spazi che l'autrice dona alle parole. Una sorta di distaccamento dal noto, da quello che ci si aspetta essere il conseguente atto eppure è un rigo bianco in cui lasciar soffermare il pensiero, trarre ispirazione per quello che verrà dopo, liberare l'intuizione, la percezione immediata del quel che sarà. 

Quello che non so di me
è superiore alla pioggia.

Si rifiuta di cadere.

È una bellezza che resiste
al buio dei temporali.

È una piccola follia
che si ferma sopra le curve
della massa informe delle strade.

Quello che non so di me
conta gli anni dei fiumi,

tutte le mani che hanno lavato
le lenzuola. E le cose ferme a terra

tra gli abbracci delle piante.

C’è remissione nel naufragio dei miei occhi.

C’è supplica nel prestare attenzione
alle cose che mi mancheranno.

Tornando al lavoro poetico di Antonietta Gnerre dirò che si divide in cinque capitoli rubricati: 1. La misura dei nomi; 2. Mi dichiaro colpevole; 3. Futuro semplice; 4. Muscovite; 5. Era innocente. In ognuno di questi le poesie seguono la linea direttrice dell'incipit, creano uno schermo che proietta immagini e realismi, inquietudini, essenzialità liriche, tutte tratte dal microcosmo dell'autrice che si espandono all'esterno per radicare, immediatamente, la pianta al terreno, influendo sulla capacità delle radici stesse, di chi scrive, di dare ancora linfa alle parole, alle creazioni della poesia che deve saper parlare la lingua universale, con delicata magia, eclettica grazia, con il periodare snello, non sovraccarico, pulito, trasparente. 

E' un fuoco sacro quello che brucia nell'animo della poetessa e quella magnifica sacralità la percepiamo tutta così come avviene in quel dialogo che l'autrice ha con se stessa e riesce diventare, magicamente, come se si trattasse di un sortilegio che ci rapisce nel più inusuale dei modi, anche il dialogo che abbiamo col nostro Io che si muove, se non simile, allo stesso modo in cui si sposta e prende posto nell'anima della poetessa, della donna che raccoglie preziosi elementi di immaterialità per farne grano da distribuire agli affamati del tempo. Se il prezioso sotterraneo che viene disvelato può far propendere per il monologo la realtà del risultato svicola da questo e rifugge concretamente dal leziosismo in cui, molto spesso, i poeti inciampano quando credono di evidenziare realtà o verità universali che vadano bene per ognuno. In questo caso la Gnerre si discosta totalmente da tali egoismi stilistici, esercizi che poco le appartengono, anzi è completamente all'antitesi di questi. 

La Gnerre canta carmi di stupefacenti radicalità, prende ampie manciate di sofferenza, trova il modo di essere se stessa nella terra e nella vita che ha deciso di vivere con l'apprensione di chi non solo interiorizza il mondo che la circonda ma, da quell'universo di cose, case, persone, condizioni, percezioni, sentimenti, emozioni, drammi, dubbi, cerca il modo di ottimizzare riflessioni che servano alle generazioni per non fare una poesia fine a se stessa ma dedicarla, in larga parte, all'amore e, altresì, all'impegno civile, di chi resta costantemente attenta a ciò che si muove dentro e smuove l'umanità.  

Come riesce nell'intento, difficile, di giungere al frutto per discendere al primordiale germoglio e, addirittura al seme, da cui tutto parte e si sviluppa? Lo fa con una innata capacità letteraria che la contraddistingue, nelle stesse parole utilizzate, nelle metafore definite, nell'ellissi che si sfidano nella musicalità dei testi, ogni elemento nasce per la ragione classica che sovrintende ad ogni venuta al mondo: generare vita e bellezza, sia essa materiale, corporale, sia essa metafisica, anima, spirito immateriale che pesa più del corpo stesso che l'avvolge per non mostrarsi a chiunque. 

Ed ancora nella crasi di un bacio, punto e sorgente di vita e luce, di "fioriture" emotive e sentimentali, si comprende la grandezza di chi sa diventare atto e patto d'eternità, da cui prendere gioia, in cui rifugiarsi, in cui lasciarsi andare alla resa dell'amore, di quella universale dimensione dell'atto che può essere sia fine a se stesso sia rivoluzione e creazione, mare e vento, terra e pietre dove gli esseri umani s'involvono e s'evolvono sino a perdere fiato. 

Se ti bacio è perché fiorisce,
da un ramo a un altro,
questo tempo di baciarti.

Baciandoti sfioro il rifugio della radice,

la luce che risale dalla muscovite
dei vulcani. L’albero che ti separa dal cielo,

la stella che ora stai fissando.

Bacio te come il vento bacia l’erba
come la terra le pietre.
Come il mare le barche che veleggiano.

Baciandoti, bacio ciò che non cambia in me.

In questo disvelamento della vita che pulsa dentro chi scrive e che cola nelle parole, nella costruzione emozionale dei versi, ogni elemento si incastra perfettamente senza sbavature, senza inutili orpelli, ogni cosa prende ispirazione dalla penna della poetessa e ne da altrettanta a chi legge, in una variopinta definizione quanto mai indefinita di quel magma interiore che appartiene ad ogni singolo vissuto. Così identicamente la ricerca dell'amore, di quel rincorrersi delle anime legate da affinità elettive ed empatiche, di quel sentimento che supera ogni distanza, anche quelle obbligate o, addirittura, destinali, diventa il motivo, la necessità, l'aspirazione a viverlo senza pretese, con la naturalezza del corpo che si lascia andare al sonno.

                                              Sono la foglia del ramo che ti parla.

Quella che cerca di stare con te
quando fuggono le radici.

Ho imparato ad ascoltarti
quando tutto si rivolta dentro i pensieri.

E ora vorrei raccogliermi sul tuo sonno.

Amarti di più, null’altro.

Entrare con la mia follia
nel futuro che stai guardando

Le visioni di Antonietta creano nuovi percorsi anche nelle difficili fratture della sua terra, l'Irpinia a cui va la dedica più viscerale, carnale, sanguigna, spazio carico di karma e di essenzialità purissime che si innestano nella dimensione più cosmica e verde, particolarità ponderali ma che sfuggono agli sguardi disattenti. In questo peregrinare, tuttavia preciso, nella linea di confine e negli spazi che si aprono alla scenografia della vita, sento la voce, il richiamo, la costanza e la tragedia di chi permea il fuori per disvelare il dentro che bussa e pretende ascolto e dal proprio margine emozionale vuole trarre medicamento per la guarigione: "Se ho pianto è perché sono stata al buio/ con un peso/ capovolto di assenze./ La nave inclinata nella sua rotta/i sogni non infilati/più tra le stelle./Se ho pianto è perché le preghiere/ rientravano e uscivano/ da una linea/ sottile di menzogne."

Ed anche quando cammina su altre strade, il più delle volte buie e retrospettive di aliti rapaci, la meraviglia crea nuove scenografie di sguardi, di prospettive, un tutt'uno che si forma dai tanti pezzi sparsi, ricondotti all'essenzialità dell'essere. Nel solco di Antonia Pozzi mi sovviene, l'elegia della terra, del locus che si catapulta a diventare genesi di ogni percezione e afflato vorace di trasparenza che la poetessa crea nella calligrafia del paesaggio con simboli e metafore che si accompagnano dalla soffice nuvola sino alle braccia materne, costrutto di emozioni senza tempo e spazio. 

Altresì la "mancanza" è comunque una percezione preponderante che smuove l'animus della poetessa che non riesce a comprendere come parlare a quell'assenza, come fare a trattenere i dubbi, come direzionare i desideri per farli realizzare. Nella consapevolezza, genetica, di non riuscire in quell'impresa c'è il riuscire ad essere vera, autentica. 

Le foglie qui si spostano in ciò che manca.
Nessuno ha imparato a trattenerle.

Ciò che non so dire alle foglie
non lo so dire a me stessa.
Eppure sono contenta di averle viste anche oggi.
Sono grata al vento, al secchiello che sta in ascolto.

Il mare riporta indietro,
poco sopra all’orizzonte, un nuovo colore.
Devo rifare tutti i pensieri daccapo, ora
calcolare la distanza della mia terra,
una distanza che prego lentamente.

Ed ecco che la foglia ritorna, come già apparsa in diverse poesie, tale che può essere considerata come il sintomo di un distacco da cui si rifugge o la leggerezza a cui si aspira, oppure, a mio modesto parere, il simbolo di crescita, di fertilità e anche rinnovamento: "Ora è il tuo tempo./Devi riemergere./ Abbraccio dopo abbraccio,/ indumento dopo indumento./ In alto ci sono i frammenti del tuo presente./ La resistenza della tua memoria./È ora di cercarti nel futuro." O, ancora, il capitolo "Futuro semplice" si apre con questa citazione di Cynthia Zarin: "Le stelle sono spillate tra le foglie degli alberi". 
Soffermiamoci un attimo a pensare, in primavera gli alberi srotolano le foglioline verdi, in estate si mostrano grandi e forti e, invece, in autunno si richiudono su se stesse seccandosi per poi cadere. Questo ciclo vitale direi che assomiglia molto alle fasi della vita di un essere umano, nasce piccolo e delicato, cresce forte e robusto, invecchia riempiendosi di rughe e poi muore. Tale simbolismo assume, in Cina, rilievo nell'Albero Cosmico, dove ogni foglia di questo albero rappresenta ogni essere dell’Universo. La foglia è altresì simbolo di felicità, spesso riversata nei tatuaggi. Ed ancora, i grandi imperatori, i grandi letterati oltreché rilevanti esponenti  della società hanno sempre indossato corone di foglie per simboleggiare la vicinanza alla divinità e la vittoria. Nelle varie culture vediamo, ad esempio, come foglia di alloro rappresenta significati differenti: nella cultura amerinda simboleggia la madre Terra; nella cultura celtica simboleggia il punto di intersezione tra il mondo celeste e quello terreno; nella cultura cinese simboleggia la forza bruta maschile che non si piega ma si spezza, in antitesi con la forza che si trae dal salice che sa piegarsi e non spezzarsi; nella cultura cristiana simboleggia la forza di contrastare le avversità, la fede e la virtù; nella cultura dei druidi simboleggia il maschio; nella cultura romana simboleggia la salvezza della vita, infatti veniva donata una corona di queste foglie a chi salvava la vita di qualcuno; nella cultura greca simboleggia devozione e felicità coniugale; nella cultura scandinava simboleggia la vita.
Ovviamente, qualunque significato vogliamo dare, resta salda la multi-focalità della visione che ci offre in dono la Gnerre, Molteplici e differenti sono gli occhi che guardano e si soffermano sulle cose della vita dando sempre risposte non univoche. Ed è proprio in questa eterogeneità che la poetessa trova dimensione per inserire anche la sua idea, percezione, concetto, senza pretendere di sovrastare le altre o essere linea direttrice o addirittura imperativo categorico. Come ho detto nell'incipit la poesia di Gnerre si respira ed è così che se ne comprende l'originalità e lo splendore. 

Credo nel pane della vita e in quello della rinascita.
Nella forma che si abbraccia di nascosto all’alba,
come una preghiera che sa attendere.
Credo negli esseri felici, quelli che insegnano a sorridere,
a guardare con ammirazione un animale nel bosco.
A piangere di gioia per il salto dei pesci nel mare.
Io amo tutto il pane che è stato impastato
dalle donne della mia famiglia.

Concludo con questa dichiarazione di fede della poetessa che basterebbe, da sola, a sintetizzare tutto quanto sin qui detto e, soprattutto, quello che non è stato detto. La fiducia nella vita, nella rinascita, nella genesi della felicità e dei sorrisi che si liberano nella semplicità della vita naturale e animale il tutto in simbiosi con la figura del pane, di quel lievito che fa crescere, sviluppare, generare, nutrimento, famiglia, coraggio, cibi del corpo e della mente da cui non si può, perché non si riesce, ne moriremmo, prescindere. 

******

Dalla prefazione di Alessandro Zaccuri: “Di solito una poesia chiede tempo per svelare il suo segreto. Non soltanto in termini di lettura ripetuta e meditata, ma anche al primo incontro, quasi a colpo d’occhio. La frase decisiva si manifesta spesso sul finale, lungo una progressione che fa della pointe (l’immagine esatta, l’acutezza illuminante) la clausola stessa della composizione. Le poesie di Antonietta Gnerre seguono il percorso inverso. Si aprono con versi che già annunciano quanto verrà dopo, come in una mise en abyme anticipata ma non precipitosa. Viene in mente lo specchio che nei Coniugi Arnolfini di Jan van Eyck riassume e nello stesso tempo capovolge l’intera scena. La contiene e, contenendola, la interpreta. «Quello che non so di me / è superiore alla pioggia», recita il distico dal quale proviene il titolo di questo libro, con il quale la scrittura di Gnerre ritorna sui temi che più le sono caratteristici, rielaborandoli però in una prospettiva di ulteriore complessità. Quelli appena citati sono i versi iniziali di una poesia che, con studiata consapevolezza, si incontra ben oltre la metà della raccolta, in una sezione posta sotto l’emblema arcano e affascinante del muscovite, il cristallo dall’aspetto tagliente che ben simboleggia l’affilato desiderio di precisione senza il quale nessuna avventura poetica potrebbe essere intrapresa. L’equivalente minerale della ginestra leopardiana, in un certo senso, se è vero che una stessa sostanza tellurica presiede all’ostinato fiorire dell’arbusto sulle pendici del Vesuvio e alla «luce che risale dalla muscovite / dei vulcani» celebrata da Gnerre in un canto d’amore nel quale, non casualmente, a manifestarsi per primo è il profilo di un albero: «Se ti bacio è perché fiorisce, / da un ramo a un altro, / questo tempo di baciarti».

Titolo: Quello che non so di me
Autore: Antonietta Gnerre
Prefazione: Alessandro Zaccuri
Collana: Interno Libri
ISBN: 978-88-85583-57-3
Data di pubblicazione: 23 marzo 2021
Pagine: 92
Formato: 11×17 cm

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