La poetica di Luca Crastolla. Dall'ignoranza della polvere all'indole del tarlo, un viaggio nel magma dell'uomo.

"L’universo è immenso, e gli uomini non sono altro che piccoli granelli di polvere su un insignificante pianeta. Ma quando più prendiamo coscienza della nostra piccolezza e della nostra impotenza dinanzi alle forze cosmiche, tanto più risulta sorprendente ciò che gli esseri umani hanno realizzato". 

Da questa definizione di Bertrand Russell vorrei partire per introdurre quello che io considero una sorta di "elogio della polvere" ossia un capitolo decisamente "serio" ma anche "dissacrante" di una metafora poetica, sostanzialmente ermetica, messa appunto nell'opera del poesta pugliese Luca Crastolla autore della silloge: L'ignoranza della polvere (Controluna). 

In questo tentativo di analisi poetico-concettuale la commistione è avvenuta anche con alcuni suoi inediti* che faranno parte di una nuova silloge dal titolo "L'indole del tarlo" (titolo che, probabilmente, prende dalla prima silloge una sorta di eclettica e scenografica ispirazione che si frammenta triade "mobile vecchio - polvere - tarlo" concatenati ad una serie di eventi e visioni del poeta di cui avremo modo di parlare in futuro e a tempo debito) e che radicalizza la scelta di una geografia di toponimi molto chiari e ben definiti:

Ma andiamo per gradi e partiamo dalla polvere, dalla sua inconsistenza che, tuttavia, diventa consistente, concreta, avvolgente, nel momento in cui si stratifica sulle cose. Anche quando sembra assente, quando non si vede a occhio nudo, la polvere fa parte del nostro mondo, ci accompagna nel viaggio e nella stasi, come una carezza di cui non riusciamo a percepire il tatto, il tocco. Se, però, un raggio di sole si insinua, sbilenco, a tracciare una linea di taglio nell’ombra, in quella parte di controluce eccola nella sua evanescente plasticità, così infinitamente piccola eppure così estesa, così tanta da sembrare un'immensa "vita volante" che ha la stessa leggerezza di un soffione.

L’ignoranza è, invece, un aggettivo, un argomento chiarificante, che segue come un elemento connaturale a questa perché la polvere si posa ovunque, sia dove è capace di costruire mantelli di opacità, di “sporco”, sia dove non riesce a elaborare alcuna architettura, penso all’acqua di un ruscello, alle foglie di un albero, a quelle cose che la polvere tocca ma non intacca. 

Ma di che materia è fatta la polvere? Sicuramente è parte di uno "sgretolamento", sia di esseri viventi che di non viventi (i primi sono organismi (ad esempio l'uomo) che compiono il proprio ciclo vitale attraverso gli organi di cui sono dotati, i secondi sono detti anorganismi perchè non possiedono alcun organo utile a compiere un ciclo vitale). Pensiamo per un attimo a quello che avviene alla nostra pelle che, quotidianamente, si rinnova e rinnovandosi diventa, tra le altre cose, minuscola particella di polvere. La polvere è quindi un elemento fatto di materia che non è più quella di un tempo, di uno scarto, di un fallimento, di una morte, di una distruzione. Einstein diceva: "Esseri umani, vegetali, o polvere cosmica, tutti danziamo al ritmo di una musica misteriosa, suonata in lontananza da un pifferaio invisibile." Ed è per questo che in quel concetto cosmico rientra anche la concezione dell'Antico Testamento: "Tutti sono diretti verso la medesima dimora: tutto è venuto dalla polvere e tutto ritorna nella polvere" - ed altresì: "Memento homo, quia pulvis es et in pulverem reverteris". Che dire poi della sua interpretazione onirica? Un simbolo bivalente sia di vita che di morte, rispolverare un vecchio mobile può significare portare alla luce beni di cui si trarrà beneficio per lungo tempo, di converso può significare problemi, dimenticanze, frammenti del passato sotterrati nell inconscio, volutamente dimenticati.

quando la carne mi venne a cercare
ero senza perimetro, non avevo confine.
E non credevo
che un giorno sarebbe tornata
all’ombelico ultimo che la rigenerò.

In principio
la morte mi venne negata
in seguito, si fecero avanti
milizie di uomini oscuri
con le mille e inutili parole della luce
Infine, riconobbi il suo prosperoso ventre
nelle carcasse dei cani, esposte al caos della mosca.

Quando l’ignoranza della polvere
si coagulò intorno al mio nome sancito nell’acqua
conobbi l’alfabeto del mondo
e presi a giocare alla creazione
come un demiurgo
ubriacato dal sidro dell’innocenza.

Seminai il dolore
sporcai il sangue
fessurai la volta più bassa del cielo
fratturai le pietre della montagna fumante.

Cercando il seme, dimenticai le more
desolato
disposi un fascio di speranza sull’altare del riscatto.

Ho creduto, così, alla croce
forgiata, d’evidenza, secondo i miei assi
Ho creduto nel ritorno della sostanza
in calchi coniati da fiati anteriori

Ho creduto
in me
apostrofo di dio.

Smise tutta quest’imperfezione
quando finalmente addormentai il petto
sulle nudità della pietra asciugata
dalle miriadi del sole nascente

Durò quel tempo
sottile
d’un vasto oblio pomeridiano


Sarà per tale ragione che, sin dal titolo, il libro di Crastolla m'appare come un'entità poetica a sé stante, un distacco a parte, che si sposta da quella che potremmo chiamare poesia classica e pretende di elaborare un percorso tutto suo, riuscendoci, in un'opera complessa di "sgretolamento del senso" da cui crea il suo privato e personale "alfabeto del mondo". Questo per dire che la lingua di Luca è espressione di un "idioma tutto suo" fatto di: periodi che iniziano senza lettere maiuscole, come se fossero travi appese e cadenti di una cattedrale ormai distrutta, di un'emozione già sfilata dal tempo; di punteggiature libere; di "titoli assenti" che esprimono quel desiderio di libertà, di estensione duttile al movimento e non alla severità di marmi o tombe di univoche interpretazioni; di spazi tra i versi in cui gravita la polvere che non si vede ma c'è; di chiusure che sembrano aperture; di "daccapo" che appaiono sentimenti tagliati con coltelli arrugginiti.

Sicuramente è tutta qui la spiegazione della sua arte poetica, di quel suo modo, unico, di dipingere, plasmare, scolpire ma anche distruggere gli elementi della vita e della morte. 

La dimensione Crastolliana si muove dalla terra dei suoi natali, radici del suo passo, in una con la catarsi del suo "essere padre e figlio" così legato alla materia pulsante del suo ambiente “naturale”, con i suoi santi e i suoi miti pagani, con le sue limbiche visioni, le sue tradizioni sanguigne, sacre e dissacranti. La scelta di Luca è insita nella parola che sgorga, vorace, dalla sua fonte sotterranea che, probabilmente, nessuno è ancora riuscito a chiarire esattamente, tanto è copiosa, tanto è fresca, tanto è inebriante eppure, tante volte, velenosa in controsenso assoluto, increspata, torbida. La polvere Crastolliana, allora, altro non è che la "storia" di quello che siamo stati, il movimento di quell'impercettibile materia in trasparenza che diventa solida nel lemma che si libera dall'ispirazione intimista liberando una poetica di "resurrezione" in cui quello che era un tempo adesso è altro, in un'ottica multifocale e multi espressiva che prende sempre differenti chiavi di letture anche per cose apparentemente identiche. Il dinamismo intrinseco dell'ispirazione poetica risale sinuosa sino ad arrivare al cuore di chi legge, anche chi sembra spaesato, rispetto a dei termini, magari, non aderenti al suo sentire, rimane rapito dalla bellezza estemporanea che, come il vento caldo del sud, muove e smuove ogni immobilità della carne. Un vento che si ritrova, come mantra, in molti dei suoi versi, come se quell'alito di vita della natura fosse il respiro di cui cibarci per non rimanere senz'aria e senza ossigeno in un mondo sempre più asfittico, cattivo, malato.  

Giuseppe Cerbino, nella prefazione al libro così si esprime: "Nei versi del poeta pugliese Luca Crastolla, avvertiamo la sensazione che nulla di certo ci possa arrivare con la parola; nulla di sicuro si possa equiparate alle facili retoriche di sociologi, psicologi... professionisti di vario genere che pensano di dare una soluzione ai problemi. Il poeta risolve sempre il disagio in una bellezza plastica, mai definitiva eppure imperscrutabile. (...) La poesia di Crastolla appare come un fenomeno del tutto peculiare che ci fa riflettere sul concetto di comprensione della poesia; una vexata quaestio che si pone sempre indebitamente nella discussione intorno all’evento poetico. (...) La parola di Crastolla è quasi sempre aspra, inospitale, mai rasserenante, rifiuta la retorica perché si interessa a vivere e a far vivere tutti noi nelle nostre vicende che rintracciamo nei ritagli simbolici di questa poesia."

A mio avviso non si può prescindere da questa "brace di verità" che crepita nella dimensione filosofica della poesia Crastolliana. Credo che l’insieme del mondo interiore del poeta si riversi nella parola come una gara, spontanea e senza sosta, a tagliare il traguardo della creazione. Sicuramente l’utilizzo di una determinata terminologia è parte di un substrato emotivo ed emozionale che appartiene a ciascuno di noi, tuttavia in Luca la parola è sintesi, feconda, di viaggi dal dentro al fuori, verso un miraggio o verso un paesaggio fatto di case e fantasmi, e dal fuori al dentro, verso quell’intimo villaggio in cui l’Io si espande e si riposa, stanco quel tanto che basta per allungare le membra e sognare nuove dimensioni dell’essere. Una sorte di andirivieni dove ogni singola espressione, significato, allusione, si innesta in un messaggio segreto, addirittura criptico che caratterizza, come una firma di “inconfondibilità”, di “riconoscibilità”, l’arte e l’estro dell’autore. La codificazione del poeta Crastolla non è operazione semplice né mi spingerò a farlo, non mi è mai piaciuto ricondurre un autore, vecchio o nuovo che sia nel panorama poetico, ad uno schema, un confine, per dire della sua lirica cogitante e preziosa. Quello che vorrei fare è togliere un piccolo strato di “polvere” dalle parole per provare a farle parlare, senza preconcetti e senza mediazioni, liquide e succose, tale da comprendere (seppur parzialmente) ciò che vogliono dire (o almeno provarci). 

Se ci si spinge a fare questa lieve operazione d’indagine del “dire Crastolliano”, ecco nascere un’armonia nella "disarmonicità" di alcune espressioni che, solo in apparenza sembrano disconnesse ma che, in realtà, fanno parte di quel mondo ancestrale, magico eppure terrigno, di zolle e di sudore, di nenie e di lavoro, di odori e olezzi, di colori e chiaroscuri, di sapori e di nausee, di sensazioni epidermiche e istinti di sopravvivenza, in cui il poeta è Sovrano, è Sacerdote ma anche Schiavo. Quanti personaggi si muovono nei reticoli del suo vissuto, in un viaggio che riempie il vaso, come se fosse una moderna Pandora al maschile, del singolare e plurale, inteso come vite soggettive e oggettive, che il poeta va a riscoprire, puntellare, definire, azzardare, stravolgere, spegnere, collocare, in un mondo semplice che si allunga con le punte delle mani fino al passato ma che ha lo sguardo, attento, silenzioso, furioso, multifocale, sul futuro, senza fare sconti, tuttavia, al presente. A queste aggiunge le urlanti tentazioni della carne, le catapulte della rabbia, la stasi della rassegnazione, la libertà assoluta della passione, la tagliente lama dell'ira, la turbativa dell'incomprensione. 

Le poesie di questa raccolta, così come gli inediti, sono come un parto fecondo, inaspettato, che la terra, la Lucania ed il Salento insieme, mettono al mondo attraverso la sua mente, le caverne dei suoi dolori, le speranze mai sopite, le divagazioni della gioventù, le corse dell’infanzia, le pungenti spine del presente che si sforza di estendersi, in uno slancio di speranza, verso il domani. Dolore e amore, amore come eros, come piena concretezza della pulsione e del sentimento, mente e carne impastati nella sua ricerca di fondamenta solide, insolite, diverse da tutto il resto del creato. Il tormento riemerge nella triade del Sud: solitudine - umana - devozione. Particelle di pensieri, queste, guardate, ognuna, con incanto e disincanto insieme, in un andirivieni di antitesi che, nei suoi versi, stringenti, corroborati quel tanto che basta dalla sofferenza e dall’aspirazione alla salvezza, diventano il sacrificio e l’offerta alla divinità, alla natura che sovrasta ogni cosa e che ingoia i mondi del disincanto e della meraviglia in una fusione di rabbia a dolcezza che ci viene donata con la sapienza di un orafo.

I gioielli, prima grezzi poi eleganti, vengono creati dalle memorie storiche del poeta, con la lentezza e la delicatezza che si confà ad un artigiano che, nelle sue opere, lavora con cura la materia prima già prefigurando il risultato finale. E il risultato altro non è che una fusione, a caldo, di luoghi, folklore, riti cristiani e pagani, di famiglie, emigrazione, lutti, dimenticanze, assenze, sembianze, catarsi, andate e ritorni, vittorie e sconfitte, fatica e leggerezza, terra arsa e terra feconda, di femmine e madri, di matrimoni e disastri, di libertà e sottomissione. 

La poesia di Luca Crastolla si esprime così, nel magma di quel vulcano che possiede al posto del cuore, carico di calda passione, d'indomita speranza ma, anche, di scetticismo freddo, di arresa agli eventi, di senso e non senso, di luoghi e fantasmi. In questo universo fatto di solide radici e di ali enormi, chiaramente ancorato alla dimensione soggettiva dell’autore, le figure della nonna, del fratello, della madre, si legano e si slegano a dismisura, rimandando a echi di verismo, pessimismo ma, anche, edificante desiderio di rivalsa. La nonna materna diventa, per Luca, il simbolo di una forza, addirittura in lega d’acciaio, che non si inginocchia alla fatica della terra, che si innalza a fortificare il carattere e a temprarlo nelle avversità dell’esistenza. Il fratello diventa legame inscindibile tra terra natia e divagazioni d’oltre mare, scontro e incontro di passioni e unioni di sangue, di appartenenza. La madre, infine, resta confinata in una gabbia di sottomissione e di violenza, simbolo crudo e crudele del patriarcato più atavico e doloroso, dove la donna null’altro è che fattrice senza dignità e senza coraggio, piegata alle regole di una società che non la riconosce come essere pensante, privo addirittura dell’essenza vitale dell’anima. 

*dovrei dirti del tepore oleario 
dai frantoi nelle domeniche di novembre 
quando i mattini intuiscono il silenzio
dai campanili, puntellare la distesa;
dovrei dirti cosa ci rimane e fare presto
delle Vie Crucis di calce, delle Madonne nere
dell'iconografia dell'estrose mancanze
e di un certo lusso messo a capperi e acciughe
non dei millantati capillari della Francigena 
le trovate, il ruralismo, le false cantine
Del frangente in cui mi feci lama di serpe 
per andare incontro al trilite, dirti
del naufrago riemerso presso Pisco Marano
per sommare la sua età ai millenni
per arrestare la deportazione degli orfani
la gloria dei declassati, e la parola era 
ancora non era cuneiforme, girava a vuoto
su un niente che da troppo ci accompagna
allestito con tinte balneari o con l'indifferenziata
sversata sulle vicinali della nostra vergogna sorvolata 
dagli amministratori del parco acquatico, dai poeti 
neomelodici, dai portaborse. L'assedio
di polveri, le dicono sottili (se proprio si vuol vedere)

In Crastolla si sentono gli echi di Rocco Scotellaro, anche se in forme decisamente decisamente diverse, si avverte il disincanto del dolore dell’uomo lasciato, indifeso, davanti alle "assenze" ingiustificate della natura che non "disseta" come dovrebbe terre e bocche di figli lasciati a morire dei sete: "qui non piove/ qui, sui nostri ombrelloni colorati/ di ludopatiche scenografie agostane/ Qui, dove l’amara terra divorzia/ dall’indolenza della pietra e fa scasso/ nella litania/ sitibonda/ dell’arsura imprecata dalla millenaria corteccia./ E le sabbie/ frivole/ vanno su come cattedrali consacrate/ allo spaccio della battigia./ Qui/ non piove./ E l’acquasantiera del cielo/ degrada/ a lamiera/ di rugginosa asciuttezza."

Eppure sembra esserci, anche nei versi indirizzati alla resa, una sorta di accorata, quanto criptica, fondente ed ermetica, supplica alla salvezza, come se l'autore avesse, comunque, l'aspirazioni di liberarsi da quella parte d'inferno che racconta con la consapevolezza, cruda e tranciante, che la "polvere ha un solo destino": "forse immagini/ le mie fornaci alimentate da un vento/ che ride della sua scellerata giovinezza./ Non conosci il mio farmi di pietra/ lungo mille insolubili anni./ Il mondo non mi appartiene:/ al mondo consegno l’assedio/ irrisolto/ dei miei larghi fianchi di cattedrale pagana./ I miei agnelli non attendono oro/ e al rame preferiscono il verde dell’ossido/ al lungo sonno del metallo/ la transumanza dell’eresia incolta./ Portami le tue ginocchia/ trafugate dai confessionali dell’offerta penitente/ Portami le vene del peccato/ gonfie del sangue che bruceremo./ La polvere ha un solo destino"

Per queste, ed altre ragioni che lascio alla percezione lettore, capire e comprendere pienamente la poesia di Luca resta comunque un "delicato mistero" che ci avvolge e stravolge, ogni volta, nelle dimensioni più intime, sottili, quasi straniere del nostro essere. La poesia è tenace e accattivante, è vibrante ed emozionante, è livida, rossastra ma anche pallida, smunta, carnale, insomma è tesi ed antitesti fuse in un solo canto. Del resto la vita, o quello che gli somiglia, non è lineare, non può esserlo, sarebbe piatta, apatica, inconsistente. Ed è forse nella contraddizione della vita che è insita la chiave per svelare questo enigma, ma noi (forse) non siamo Edipo... e Luca non pretende di essere la Sfinge. 

non occorre uno spintone del cielo
perché io cada sulle ginocchia
e innalzi una preghiera di polvere

Mi dicevi, ed io capivo
le vene del cardo e dell’elicriso.
Capivo il senso dei miei cammini avventurati
presso i sentieri dell’anima sterrata
il genuflettermi in levare, presso i santuari della rupe.

Straniero al ghermire delle guglie
preteso dai gironi dei tarantolati che non svettano
alla destra del padre di alcuno. Io, questuante
sul dorso di sagrati di sterpi
intendo chiaramente il verso del dio pecora
e accolgo il suo bivacco.

Qui la materia si scaraffa indivisa, alla mia tavola
E posso rendere all’utile quel che è dell’utile
per il setaccio esatto dell’essenziale.


...e allora sarà forse nel "tarlo" - in quell'essere, infinitamente piccolo, che tuttavia riesce a corrodere e, radicalmente, distruggere e digerire elementi duri, pesanti, immangiabili per qualsiasi altro essere vivente - che troveremo la "retta via" per interpretare alcuni degli "enigmi" interpretativi della poetica di Luca Crastolla? 

Lo scopriremo presto...


Il lume della follia. Prisco De Vivo

Il Lume della folliaOèdipus edizioniè l'ultimo lavoro poetico (ed anche pittorico) di Prisco De Vivo, poeta, pittore, scultore napoletano con all'attivo numerosi pubblicazioni tra cui si evidenziano: Dell’amore del sangue e del ricordo (selezionato al Premio Pascoli 2005) (Il Laboratorio/Le edizioni, 2004, prefazione di Plinio Perilli e postfazione di Raffaele Piazza); Segni e parole (In una notte oscura e uggiosa) (Il Laboratorio/Le edizioni, 2006, lavoro di poesia/immagini a quattro mani con Raffaele Piazza); Dalla penultima soglia (Marcus edizioni, 2008, prefazione di Marcello Carlino); Ad Auschwitz (Il Laboratorio/le edizioni, 2009, prefazione di Enzo Rega e postfazione di Antonella Cilento). 

La prefazione del testo, affidata ad Alfonso Guida evidenzia che la poesia di "Prisco De Vivo è raccolta dalla possibilità della speranza nella malattia. Si può ancora sperare quando il cervello è in tutte le sue parti ferito? Non si può far luce della vita di ogni giorno, ma di un’altra vita, di un altrove da dove spunta l’atto di creazione. E qui c’è la follia che nel tempo rende flaccide le menti e la follia che esplode come una genesi, come un’apparizione veterotestamentaria, in tutta la sua rigidezza."

Dal canto mio, nell'analisi critica del testo che vado ad esporre vorrei partire dal titolo che, a me pare, l'antitesi pura e semplice del detto "Perdere il lume della ragione" dove lume [lat. lūmen (-mĭnis), affine a lūx «luce»] rappresenta, in genere, la sorgente luminosa, l'apparecchio o il mezzo, anche molto semplice, per produrre luce artificiale e illuminare, mentre la frase in sè ha il significato di "Adirarsi al punto di non ragionare più, diventando come ciechi per la rabbia." Pertanto "lume" nell'accezione originale è la luce che irraggia dalla mente stessa o da cui la mente è irraggiata e che da controllo alla coscienza dei propri atti: "Lume v'è dato a bene e a malizia, e libero voler (Dante)". Focilide diceva: "Dio ha distribuito armi a tutto ciò che esiste: ha dato ali all’uccello, zanne al leone, corna al toro, pungiglione all’ape; all’uomo ha dato la ragio­ne" e Norberto Bobbio sosteneva che "La ragione non è un lume: è un lumicino. Ma non abbiamo altro per procedere in mezzo alle tenebre."  Ed allora vi può essere un "lume" nella follia che, per sua natura, oscura la coscienza e l'intelletto e lo rende incapace di percepire e ragionare sulle cose della vita per quelle che sono, con i sensi disallineati e sparpagliati come delle piume al vento?

Probabilmente il senso da dare alla parola utilizzata è più complesso rispetto a quello che appare emergere da una lettura superficiale delle cose. Si perché la poetica di questo libro non è semplicemente "poesia", non è riconducibile né riducibile a una elaborazione del sentire poi riversato nelle parole, nel lirismo dei canti, ma è improntata a un'indagine, sofferta, travagliata, profonda nel mondo (molto spesso immondo per l'agonia che si porta appresso) della malattia, del dolore, delle scollature emozionali e, il più delle volte, corporee che questo stato patologico impone all'essere umano, alla sua anima, alla sua espansione interna, alla sua esternalizzazione in una con le catarsi del sentire, del dire, del non dire, del bisbigliare, dell'urlare o semplicemente stare a guardare con gli occhi del disincanto, di chi ha mille coltelli piantati nel petto. Per questa ragione c'è una "luce" un "lume" nella follia, nel buio che avvolge il malato mentale, ed è la "verità" che sgorga dagli occhi di suo zio. Da quegli occhi, prendendoli in prestito, immedesimandosi empaticamente con quel abbandono di mente e corpo, cerca di aprire le tenebre, squarciando l'assolutezza della pazzia, diventando altro e, nell'altra anima sprofondando, ci invita a spogliarci di ragione, di apparenza, rivestirci di dubbio, di incertezza. Sicuramente è questo il concreto messaggio "evangelico" della sua poesia, quell'essere fratello dell'ultimo, quella misericordia e carità che alla società moderna difetta totalmente perché: “Gesù Cristo non ci vuole come principi che guardano in modo sprezzante, ma come uomini e donne del popolo.” [Papa Francesco]

- La dedica del libro -

Il simbolismo che ne deriva, nell'affrontare il tema, pericoloso eppure, per l'autore, "edificante" della follia, della pazzia, della devianza mentale dal normale - o da quello che viene considerato sano e naturale nell'evoluzione dell'uomo moderno - emerge dal sotterraneo della privata esperienza dell'autore, l'internamento in manicomio dello zio Gaetano*. In relazione a questo evento il poeta appare così rammaricato, angosciato, quasi ripiegato su se stesso, da mettere al mondo, spontaneamente, stati d'animo assolutamente necessari per far rivivere nei versi l'esatta consistenza del dramma che si va dipanando. Qualcuno diceva che la "ragione è un angelo tra l'uomo e Dio" e la follia? Se ragioniamo per convenzioni dovrebbe essere l'esatto opposto, ma questo libro delle convenzioni ne fa carta straccia. Si distacca completamente da come "gli altri" guardano la pazzia, l'alterazione psichica e mentale, per dare una "visione" che si tuffa nelle profondità delle vite e riemerge con segreti inesplorati, con verità scioccanti, con riflessioni che scrostano il superfluo della vita e vanno all'essenziale e lo mettono in evidenza anche quando non si vorrebbe o si dovrebbe farlo. 

Per De Vivo, invece, il vero, l'autenticità (come già ho anticipato prima) abita negli occhi della follia, in quelli della zia Olga ma soprattutto in quelli di suo zio Gaetano, picchiato a morte dagli infermieri e che, come un (povero) Cristo pazzo, il poeta osserva nella sua immobile (quasi catartica) follia. E da quello sguardo, così dolce eppure così fortemente penetrante, noi lettori riusciamo a vedere quell'anima bambina che, adesso, non riusciamo neppure a comprendere bene dove si trovi ma esiste, c'è, si muove, anche se le ossa, i muscoli, la pelle, appesantiti dalla vecchiaia, rimangono apparentemente fermi. L'empatia è così viva e piena da lasciarci senza fiato. 

Per tale ragione, probabilmente, a mio modesto avviso, tra le tante belle è questa la più bella delle sue poesie, la più cruda, eppure più vera, melodiosa nella sua essenza di dolore filiforme, come le mani del malato: "Ti ho salutato/mentre eri accasciato alla sedia/come un fuscello sei caduto sui miei piedi/ sull’acqua di un pavimento freddo e/ottagonale./ Ospedale: termico serbatoio del delirio./ La fuori sai c’è un manto celeste/ appoggiato all’albero dei limoni/ frenetico al tempo che ti passa a fianco/ digiuni/ e svuoti la mia anima fuori./ Penso alle tue tre sorelle/ angeli senza ali/che ti assistono./ Che un fiume di verità sgorga dai tuoi occhi./ Il mio sguardo non regge il tuo/ Signore ridonami tutto l’amore dei suoi occhi./ In quegli occhi chiari/ ondeggia il truce destino/ odi gli infermieri che ancora gridano/ ...“come cane picchiato a sangue”./ Hai le mani filiformi/ lo sguardo perso chissà in quale abisso./ e la tua anima da bambino/ dov’è./ Non sei nulla dell’animale cresciuto/ vecchio./ Ti osservo in un cielo stellato e grigio,/ con uno sguardo di coscienza azzurra/ di un Cristo pazzo." [Ti ho salutato pag. 43]

Il lume della follia è un’opera che vibra nel sangue dell'autore, che scalcia nelle parole, nelle immagini, su cui non posso soffermarmi più di tanto (per ovvie ragioni), ma che - da quanto rivelatomi dalla mia "personale visione oculare", ossia mia figlia Ginevra - si comprendono con immediatezza e senza necessità alcuna d'interpretazione perché, parole sue: "I colori e le linee, severe e pesanti, utilizzate nella pittura, insieme al fondo di colore, quasi grezzo, esprimono tutto il disagio emozionale dei personaggi raffigurati" e, ancora, è un'opera che traspira come "sudario" di tormento e smarrimento, nella camicia della pelle, di quell'involucro che, solitario, sembra essere l'unica compagnia di normalità e sanità in un uomo insano di mente. Le dolorose spine di cui è sofferente l'anima del poeta emergono tutte, e tutte insieme, nelle poesie che portano a galla testamenti d'incoscienza, relitti di esistenze, corpi lasciati alla muffa e alla dimenticanza, ombre crude e crudeli che avvolgono l'umanità in balia delle insensatezze del mondo e dei mondi che gravitano nelle cellule folli di chi si è perso nel sentiero della ragione. Un minuzioso testamento spirituale in un drammatico dialogo con un’umanità che non sembra avere scampo, braccata dal notturno, dal nero delle ombre, dalla cupezza delle crisi psichiche, sottomessa alle tribolazioni più crudeli, drammatiche, addirittura messa al rogo come demoni da esorcizzare. 

Alla parola utilizzata, che da voce al dramma, al nulla, al vuoto si annoda un legame ancestrale, le stasi della coscienza, le bizzarrie dell'incoscienza, annodate, strette, come trecce di carne e sangue che cola, lo si riesce a percepire senza vederlo né toccarlo, nelle dimensioni affidate alla narrazione di stati interiori esteriorizzati con la devozione che si da ad una reliquia sacra. "Ero matta in mezzo ai matti. I matti erano matti nel profondo, alcuni molto intelligenti. Sono nate lì le mie più belle amicizie. I matti son simpatici, non così i dementi, che sono tutti fuori, nel mondo. I dementi li ho incontrati dopo, quando sono uscita." Lo diceva Alda Merini e aggiungo altresì che, probabilmente, un folle è semplicemente "uno come noi che, in una certa fase della sua vita, ha deciso di buttare la maschera che gli impone la società".

Nella solitudine che, recalcitrante, pervade tutto il testo, nell'assolutezza dell'animus cogitante, nella "mirabolanza" dell'imperfezione vista come un dono piuttosto che come un handicap, ma solo da una parte dello sguardo sensibile, il resto è cosa morta se affidato alla cecità dell'umanità spinta in un cammino all'indietro, completamente sganciata dalla percezione dell'altro e insensibile al dolore e alla sofferenza altrui perché non riconducibile nei confini della "propria" proprietà privata ma relegata all'altrove, a quel mondo così distante da noi e da tenere a debita distanza.

Eppure il poeta, nella sua personale Via Crucis, mette a punto una sorta di metempsicosi, di immedesimazione profonda, viscerale, carnale, finanche umorale, con i personaggi che osserva dal suo focus personale, con l'occhio indagatore di chi, complice un'estrema sensibilità, riesce a percepire quello che nessuno "vede". Per questo passa con naturale e incredibile disinvoltura dal percorso intimistico di un personaggio familiare, che ha creato nella sua esistenza un taglio trasversale, alle follie di Nietzsche, Kafka, Van Gogh, Rimbaud, in una posizione che, sicuramente, è paragonabile a quella agognata da Frida Kahlo: "Vorrei essere dietro il sipario della follia: mi occuperei dei fiori, dipingerei l’amore, il dolore, la tenerezza e riderei dell’idiozia degli altri e tutti direbbero: poverina è matta e soprattutto riderei di me."

Si comprende quindi come poesia e pittura si leghino inscindibilmente per dare vita e forma e dimensione ad una sintassi "folle" dei lessemi, ad un linguaggio fatto di estrema concretezza, quasi radicale, ossea, dove si esplorano caverne di marciume, cruente ferite, dove si ricevono sputi, violenza, ed ogni cosa è calata nella coesistenza irreale, imperfetta, quasi simbolicamente disvelante, di vite e storie apparentemente felici altre crudelmente disperate, o allegre per pochi brevi istanti, o per pochi e scarni ricordi, tanto sono ridotti all'estrema "anoressia materiale".

De Vivo, tuttavia, non cade nel tranello della "romanticizzazione dello stato di sofferenza" bensì cerca di prenderlo, anatomicamente, sanguignamente, per quello che è cercando di elevarlo a una dimensione che non soggiace al "soggettivo" ma cerca nell'universale il punto da cui far partire la sua indagine che ha il sentore o forse dovremo dire il sapore della investigazione dell'"occulto" ossia di quel mondo che non riusciamo a comprendere perché ci è totalmente oscuro ovvero sconosciuto e che temiamo proprio per l'assenza di percezioni materiali, conoscitive. Occulto infatti [dal lat. occultus, propr. part. pass. di occulĕre; v. occultare]. significa nascosto, segreto (in contrapposizione a palese, manifesto) ed è un termine che viene utilizzato rispetto a cose che siano considerate per sé stesse impenetrabili, inconoscibili alla mente dell’uomo, o comunque recondite, misteriose: ad esempio "le occulte vie della Provvidenza"; "le occulte influenze degli astri" oppure, citando Dante: "Lo spirito mio (...) per occulte virtù che da lei mosse, d’antico amor sentì la gran potenza". 

Qualcuno afferma che l'uomo ha paura di quello che non conosce, in questo caso possiamo affermare che l'uomo ha paura di quello che non si "sforza" di conoscere. Una conoscenza che in Prisco De Vivo non manca, tanto la sua analisi, la sua cultura dell'altro, del diverso, dell'uomo o della donna considerato "anormale" (se si può usare questo termine imperfetto e decisamente spurio) per la maggioranza dell'umanità, è decisa, concreta, fatta di materia che lui stesso plasma, non solo nella parola ma anche nelle dita, nella mano che dipinge e crea, con il dono dell'arte pittorica, identici mondi complessi come quelli che vengono alla luce con la poesia, con un dualismo direi quasi "bipolare" per rimanere nel campo di quello che i manuali diagnostici oggi definiscono "disturbo bipolare" caratterizzato da episodi maniacali o ipomaniacali e depressivi e di cui, la poetessa Sylvia Plath, soffriva (secondo l’ottica psicoanalitica la mania è una risposta difensiva nei confronti di forti sentimenti di incompetenza, perdita e abbandono). Per questo l'indagine di una condizione estrema, come quella dedicata allo zio internato, ovvero alla zia, affiorano dalle pagine ed ambiscono a redimersi per rivendicare libertà espressiva tramite il potere del dipinto e della scrittura: "Zia Olga/ Zio Gaetano/sopra le stuole del paradiso rimanevano appesi/alle porte dell’Eden./Gli infami infermieri/gli scambiavano mutande e sigarette./Stretti per mano con soldatini/e appiccicosa marmellata alle dita/sorridevano alle facce di luna./Il piombo del silenzio,/un lento gelo si spegneva/nei loro sguardi." [Zia Olga e Zio Gaetano pag. 37]

L'impressionismo che ne deriva è quello che si incardina nella paura di "mostri notturni" o nei lineamenti "inespressivi" della "follia" come nei dipinti di Theodore Géricault (l'artista dedicò numerose tele ai malati di mente, in uno studio teso a ritrovare nella inespressività degli alienati le linee di confine tra l’umano e ciò che non è più tale) oppure in quello più famo di Henry Fuseli, The Nightmare (L'incubo) del 1781.

Per tutte queste ragioni, e probabilmente per altre ancora, Il lume della follia è un libro da tenere in biblioteca, da leggere e rileggere per avere concretezza che il mondo non è solo quello "meraviglioso" - che ci viene propinato nelle pubblicità ingannevoli - ma è anche altro, un altro che dobbiamo conoscere, capire, comprendere per essere davvero considerati "esseri umani". 

IL LUME DELLA FOLLIA

Mi confessai alle vostre incredulità.
Gli amici della sera
mi derisero tutti
appendendomi crani e rosari d’osso al collo.
Con infinita dolcezza
tra gli sputi delle abiure
attesi nell’alba
IL LUME DELLA FOLLIA.
[Pag. 31]



*Le illustrazioni presenti in volume sono riproduzioni di opere d’arte  edite e inedite di Prisco De Vivo, afferenti ai cicli pittorici denominati Le bamboline in bocca, Le vasche, Gente di plastica (Omaggio a Pippo Del Bono). 

La vertigine del taglio. Floriana Coppola

"Io racconto. Non sono mai innocente, mantengo il passato e il possibile uniti con le parole. 
Cuciti insieme con nodi stretti. Ogni verso prepara lo sguardo per incontrare l’altro. Ogni racconto svela una bugia e nasconde una verità, ma non è possibile saper discernere la prima dalla seconda."

Inzia così, dopo una citazione pregnante di Fernando Pessoa "Ognuno di noi è più di uno, è molti, è una prolissità di se stesso. [...]" il libro di Floriana Coppola: La vertigine del taglio. L'incipit è di quelli che smuovono i respiri dell'essere, riannodano emozioni alla carne, leggono parole che suonano nei timpani caldi e accoglienti, si insinuano a scavare nel profondo dell'umanità alla ricerca delle sue variegate figure, delle melanconie e delle difficili esistenze, come delle sofferenze che, imbizzarrite, cavalcano nei reconditi angoli del mondo e pretendono di raccontarsi urlando nel silenzio dell'indifferenza. Ed ancora salgono a tracciare (le parole) solchi nelle terre inesplorate, per piantare riflessioni, prima districando le selve burrascose e spinose delle dimensioni più remote dell'Io in un saliscendi in cui la finzione si innesta nella realtà e catapulta fuori, dal chiuso angolo delle solitudini, indefinite storie che si pretende e si vuole definire. 

Già la catalogazione degli "argomenti" trattati ha un suo intimo e innovativo modus operandi, una prima chiave di lettura la si trova alla fine, nell'indice, nei titoli da cui si dipana il tessuto espositivo dell'autrice a cui fanno seguito le creazioni di parole, suoni, sensazioni. Qui ogni elemento si muove nel sentiero della raffigurazione senza maschere e senza preconcetti, libera e scevra da orpelli inutili, chiari carmi d'essenza privi d'innaturalità ma concreti, quel "tanto più che serve" a rendere la "cronaca" emotiva e la "descrizione" del presente e del passato quanto più aderente alla genesi dell'Io che pretende d'essere ascoltato. capito, accompagnato nel viaggio a ritroso nei propri crateri interiori.  
Per questo le "distinzioni espositive" (che impropriamente chiamo così solo per un  mio ordine espositivo) partono da: Io racconto; Racconto; Racconto e invito; Mi chiedo; La mia grammatica; Racconto e non voglio; Racconto e cerco; Racconto a me stessa; Scrivo del padre e della madre. Da ognuno di questi, poi, si generano le ramificazioni della pianta autorale, di quell'ulivo che, con la potenza secolare, districa esistenze e finzioni nel frutto della "sussistenza vitale e realistica" di uomini e donne, o forse più donne che uomini, rispetto all'indagine qui evidenziata, senza la sovraesposizione assolutoria delle prime sui secondi ma con la pregnanza di chi comprende che l'arco di volta dell'universo ha una sua base da cui non si prescinde per evitare la disfatta dell'umanità: la donna. 

Anche la postfazione, a cura di Pasquale Vitagliano*, ci da un'altra chiave, per meglio aprire tutte le porte di quest'opera che ha, al suo interno, una mirabolante serie di altre scatole, dove ogni argomento ha un dentro e un fuori che si scavano a vicenda e tentano di emergere sempre e comunque, anche dalla punteggiatura usata, dalle pause, dai daccapo. a riprova del fatto che la vita dell'essere umano altro non è che una Matrioska [una parola russa utilizzata come diminutivo del nome Matrena, letteralmente "matrona", come capofamiglia femminile in una società matriarcale. La matrioska rappresenta simbolicamente la figura materna e la generosità ad essa correlata con un collegamento alla fertilità della terra e della donna - ma di questo, e del significato che per me riesce ad avere in questo testo, parleremo più avanti].

"*Al termine di questa notte ci restano in mano le parole dell’autrice, sabbia eppure traccia di quello che abbiamo passato. Grazie a queste posso personalmente affermare, pur ancorato alla mia identità, che tutte le mie virtù sono femminili. Insomma, non c’è più Cromwell in lotta contro Afrodite, ma esseri umani che si scoprono soli nel dolore delle esistenze e scoprono, senza retorica, la necessità dell’incontro con l’altro, prima e più della (ri)scoperta di un qualsiasi sentimento amoroso."

E la raffigurazione più iconica di questa "vertigine" ci viene immediatamente "donata", come uno schiaffo in pieno volto, dalla stessa autrice, in uno dei primi racconti o forse sarebbe più giusto usare il termine, maggiormente calzante, di prose poetiche: "Questa vertigine che addolora e ubriaca, un'orma sulla/spiaggia che va e viene e si dilegua in sabbia./A tratti la perdo e poi ritorna, più sbiadita. A labbra chiuse./Sono la sentinella accesa dal tuo sguardo./E allora mi sollevo al ramo, come impiccata." [Wish pag. 9]

Comunque la si voglia identificare, in qualsiasi modus la si voglia "catalogare" (se per forza di cosa si propende per questo esercizio dal quale io rifuggo sempre) nella sua estensione lirica o poetica o addirittura monologante, la scrittura di Floriana Coppola mi lascia senza fiato. La mia percezione sensoriale rimane fulminata dalle immagini evocative, dalle sensazioni che scalciano in ogni singola frase, mai banale, mai scontata, bensì pregnante di vissuto, di esperienza, di dimensione, di percezione, di studio (tanto), ossia di tutto quello che serve, a una scrittrice, per attirare l'attenzione del lettore. Nelle sue "pittoriche" ed "edificanti" "cattedrali" di "carnalità poetiche", negli spiriti inquieti che si rincorrono tra le pagine del libro, come se fossero quasi legati da un sortilegio che avvolge la narrazione, i personaggi vengono alla luce, senza mai chiedere permesso ma con la prorompenza che si accompagana alle storie "vere". Come, ad esempio accade, alla "signora perbene" di Bloomsbury [pag. 13] "Piatta come una lisca e dura negli occhi e nel ventre./Niente figli la signora, niente lavoro, solo carte./ Pagine e pagine che riempie ogni giorno con la puntigliosa ossessione di un malato di nervi, deve pur sfogare./"

Così come ogni raffigurazione plastica e coscenziosa delle "anime" che qui si raccontano, di quelle che in silenzio attendono di essere liberate dalle parole, che risultano collegate ad altre storie, come in un gigantesco puzzle da dove nascono armonie disarmoniche in un mondo sempre più "crazy" e cattivo come quello che si assiepa dietro le prime ombre della sera ed è pronto per sbranare ogni cosa. Anche la descrizione dei vissuti, che si snodano nelle vie notturne si aprono alla comprensione, alla compenetrazione di chi scrive e di chi legge, creando un dipinto verista, senza sbavature, pregnante e corroborante nella sua eccezionale potenza plasmatica oltre che poetica. 

"Racconto. Ho bisogno di un soggetto che racconta e un oggetto che è raccontato. Il mio punto di vista è l’ospite segreto. Mescolo le sue carte e spariglio le coppie. Vittima e carnefice, sono il Giano Bifronte. Solo i dettagli mi servono per salvarmi dalla netta demarcazione."

Dettagli esternalizzati e accattivanti, anche quelli di maggiore impatto dolente, come le sensazioni di chi sta per soffocare davanti ad una nota di agro-calice sanguinolento, nelle crasi delle vite e delle sopravvivenze, dei fallimenti e dei piani distrutti dalla violenza, dal tormento che si infila fin sotto pelle e cuce agonie sempre nuove e sempre più destabilizzanti. Il soggetto della poetessa indossa, di volta in volta, pelle, carne, ossa, sempre diversi, con un solo filo conduttore, la realtà di un'esistenza ai margini della felicità, poco distante dal precipizio della follia, ferito a morte, molto spesso, dai casi e dai corsi incerti ed inversi della vita, in una battaglia che sembra persa in partenza. Statue di cera che si liquefano davanti agli occhi increduli della società, spesso cieca ai richiami di fumo, a quel simbolo d'aiuto che si libera dal fuoco dell'egos e si riduce a sporcare l'ossigeno dell'universo. Le parallele sono queste vite, incomprese eppure comprese nel gioco dei chiaroscuri, nell'enfasi di movenze, di esperienze, corde che stringono e riducono a "poca cosa" ogni principio di ribellione oppure istinto di salvezza.  

Il lemma, il certosino richiamo alle interiorizzazioni dei vissuti, si ricalca sulle figure che vengono richiamate all'attenzione dell'autrice, con la sezione anatomica del suo dire, del suo muoversi nei meandri del non detto, dell'incessante richiamo al dentro, a quello che gravita nel cuore e ne fa il centro di ogni subitanea emozione da catalogare, chiarire, esporre, così che nulla dovrà rimanere fuori dal focus che, la Coppola, si da come habitus narrativo fondente, poetico nei richiami stilistici all'eleganza della parola, alla ricerca, non leziosa ma pratica, del miglior termine per "narrare" di una vita che si apre come fiore di campo, battuto dalla tempesta, e prova a spandere il suo profumo nelle narici del mondo. 

E dunque, tornando alla Matrioska, la concezione che qui mi sento di dare alle storie che si muovono in chiave post-moderna, è quello della "guida", un modo per fare un viaggio alla scoperta del nocciolo della vita. Credo che sia tutto qui il focus del libro, un pregnante e sofferto lavoro che, certamente, ha lasciato non pochi strascichi emotivi anche nel suo modo di scrivere. nella scrittura futura, in quell'esondanzione dall'argine naturale che fluirà, di poi, verso la completa comprensione delle storie che mette in evidenza. 

La sua opera parte dal "fuori", dalla consistenza più grezza, per poi entrare, attraverso le bambole che si dischiudono, di volta in volta, di sezione in sezione, nel "dento". In quella che molti chiamano "anima" o "essenza" in un flusso lavico senza sosta, il magma caldo della vita che pretende ascolto, precipita nell'incavo delle parole, costruendo armistizi in battaglie senza sosta, avanzate in combattimenti non ricercati, come se la dominante eclissi della luna, di tanto in tanto, si sposasse col sole caldo dell'estate, senza mutare le cose nella loro sostanza, disvelandone i segreti più reconditi che si muovono come sementi nel miracolo della germinazione più feconda: "(...) Scrivo perché è l’unica cosa che so fare con/ estremo piacere, con estremo godimento. Senza alcun/ pudore."  Una scrittura che diventa argilla per definire nei minimi particolari esterne apprensioni ed interne divagazioni, in una "scultura della parola" non lasciata al caso, ricondotta nelle vene, vive e fenconde, dell'autrice che diventano strade e dimensioni, nelle pagine del libro, ed anche arterie di pulsioni e gravitazioni nei corpi delle sue eroine moderne disincatate, disulluse...addirittura anti eroine di se stesse. Dal Paradiso all'Inferno di ciascun "privato" mondo fatto di occhi, bocca, naso, volti, gambe, braccia, pelle, sangue e di tutta la materia trasparente delle emozioni o struttuale dei sentimenti, si muove la penna della "dissezione" o dello studio intimista ed anche concreto di quel che riemerge dai fondali dell'umana conoscenza. La mente e le sue collusioni con la follia, le briglie sciolte alla bugia, la verità che si ammanta di agonia, finanche cannibalismi di soggettività mai sono state espresse così degnamente come in questo libro che definire semplicisticamente silloge di prosa e poesia è, a mio modesto avviso, una bestemmia. Quanti satelliti gravitano in queste pagine non saprei dirlo. Rende l'idea la creazione del mondo con il "big-bang" da cui tutto nacque e da cui tutto si mosse nell'evoluzione dell'uomo. In ogni storia assistiamo ad una costante esplosione che riecheggia, soffusamente, nelle altre storie, non facendo semplicemente da timpano alla ripetizione dell'eco ma creano strutture espositive inaspettate e accattivanti da cui il lettore si sente così attratto che, alla fine di questo Odisseico viaggio si resta alquanto dispiaciuti.

Probabilmente l'autrice più che Ulisse rappresenta Penelope e la sua tela. Non una ma infinite volte cuce e interseca l'ago col filo del racconto, della testimonianzia in prima persona, per poi disfarla allo scopo di creare nuove intelaiature di stoffa e fibra anche quelle più moderne, futuriste, figlie del presente e connesse alla realtà virtuale. Un'interazione simbolica e irreale, perchè vissuta tra tastiera e schermo, ma che ben rappresenta molti dei rapporti che si creano basati sulle "inesistenze" di "internet": "Ecco cosa sono stata: solo un film rubato, una stanza segreta, una boccata d’aria, un videogame, uno striptease, una torta al cioccolato, un bagno chiuso con tre specchi, un bicchiere di vino, oppure un bicchiere di wodka buttata in gola. Io sono stata per un’ora sola un sogno gratis, una passata di shampoo, un elemento spostabile nel cestino, un file scomodo da inserire in cartella, un intervallo tra una pratica e l’altra, una sbornia che non avvelena, una donna che non chiede niente, una bambina senza giardino.(...)"[Chat pag. 83]

Coppola crea l'abito del mondo che, tuttavia, non disdegna di spogliare, crea le direzioni soggettive di "povere criste", di "donne incomprese", di "smagrite naufraghe del presente" o addirittura di "porno" Lolite Web. Da ogni singolo "format" dei trascorsi raccontati c'è tanto e tale materiale da farci altre mille storie, mille divagazioni. Eppure la "brevità" scelta, la stringata composizione depone a favore dell'essenzialità. Nulla che non serva viene narrato, la parola è tornita in modo tale che pochi siano gli scarti da lasciare sul pavimento. Una sorta di ermetismo 2.0 volto a coagulare il contatto drammatico della scrittrice con la realtà in una poesia pensante, densa di espressioni analogiche e simboliche ma anche di, e qui vi è l'innovazione, aderenza al contatto visivo, al presente descritto con la decisa percezione dell'occhio clinico che esclude il superfluo, le inutilità, e va alla definizione esatta di ciò che si vuole descrivere, analizzare, studiare, evidenziare. Ed ecco quella tensione metafisica che richiama Sartre e Quasimodo ma anche Rilke, Eliot, García Lorca, condensati nelle loro più elastiche estensioni stilistiche in una scrittura tutta al femminile. In questa, credo, vi sia la caratteristica poetica di Floriana Coppola perseguire l'ideale di una “poesia/narrativa pura” in cui ribolle il senso della solitudine disperata della donna (ma anche dell'uomo moderno) che ha perduto fede negli antichi valori, nei miti della civiltà positivistica e non ha più certezze a cui ancorarsi saldamente. 

"Racconto a me stessa la mia storia. La mia pagina conosce una nenia antica. Inizia sempre tutto da un fotogramma interno. Le immagini sono simulacri ancestrali che ritornano tra le righe, annusano la mia padronanza del lessico familiare, delineano la cartografia nascosta delle emozioni e di ogni battaglia. Vado come una rabdomante alla ricerca del senso. So di non potermi fermare fino alla fine della scadenza prevista. La carta principale è la ruota della fortuna."

Eppure, c'è una speranza di fondo da ricercare in un mondo che ha perso l'aspirazione ad essere bello, accattivante, denso di significato e di poesia? L'autrice si muove verso quell' indagine, quell'esplorazione "non dogmatica" che nella disomogeneità delle esperienze tragga omogeneità d' analisi aspirando a "categorie universali: il sacrificio e la felicità, il/ dono e il destino, il bene e il male, la differenza tra l’amore/ e il legame. Andare oltre la siepe, dice il poeta. Rimane/ come puntello inaccessibile la conoscenza del dolore. Cerca ancora te, la mia anima anfibia."

Dalle pagine si riesce a sentire, a percepire, anche ogni singola fragranza, accattivante, coinvolgente, avvolgente, dirompente, di quelle caparbie, altalenanti, emozioni di vite srotolate, riavvolte, riannodate, vissute e stirate nei confini, che si aprono e si chiudono, così come avviene nella mescolanza di fiori secchi, foglie, erba e cortecce aromatiche, che raccontano di storie passate eppure pregne di aromi ancora presenti e corroboranti tali da non incedere nella strada della dimenticanza. Il viaggio è non soltanto narrativo, poetico, ma olfattivo, sensoriale, finanche tattile, le descrizioni assurgono la materia a elemento da toccare con mano, come se fosse a nostra disposizione il corpo, di carne ed ossa, colato in una statua nel museo di quell'umanità muticolore, immobile, sia in ascolto che in delirio.   

"Scrivo del padre e della madre. Scrivo del perdono e dell’abbandono. Delle mezze verità che portano a uccidere dentro e delle mezze bugie che mi tengono in piedi, che mi fanno sopravvivere. Scrivo del gioco dei ruoli che non si interrompe, delle costellazioni familiari in cui si affoga e si rinasce nuovi. Scrivo del passato per sostenere il presente. Scrivo perché è l’unica cosa che so fare con estremo piacere, con estremo godimento. Senza alcun pudore."


La vertigine del taglio. Editore: Terra d'Ulivi - Collana: I granati - Codice EAN: 9788832006933 -Anno edizione: 2021 - Anno pubblicazione: 2021 - Dati: 144 p., brossura

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