Il lume della follia. Prisco De Vivo

Il Lume della folliaOèdipus edizioniè l'ultimo lavoro poetico (ed anche pittorico) di Prisco De Vivo, poeta, pittore, scultore napoletano con all'attivo numerosi pubblicazioni tra cui si evidenziano: Dell’amore del sangue e del ricordo (selezionato al Premio Pascoli 2005) (Il Laboratorio/Le edizioni, 2004, prefazione di Plinio Perilli e postfazione di Raffaele Piazza); Segni e parole (In una notte oscura e uggiosa) (Il Laboratorio/Le edizioni, 2006, lavoro di poesia/immagini a quattro mani con Raffaele Piazza); Dalla penultima soglia (Marcus edizioni, 2008, prefazione di Marcello Carlino); Ad Auschwitz (Il Laboratorio/le edizioni, 2009, prefazione di Enzo Rega e postfazione di Antonella Cilento). 

La prefazione del testo, affidata ad Alfonso Guida evidenzia che la poesia di "Prisco De Vivo è raccolta dalla possibilità della speranza nella malattia. Si può ancora sperare quando il cervello è in tutte le sue parti ferito? Non si può far luce della vita di ogni giorno, ma di un’altra vita, di un altrove da dove spunta l’atto di creazione. E qui c’è la follia che nel tempo rende flaccide le menti e la follia che esplode come una genesi, come un’apparizione veterotestamentaria, in tutta la sua rigidezza."

Dal canto mio, nell'analisi critica del testo che vado ad esporre vorrei partire dal titolo che, a me pare, l'antitesi pura e semplice del detto "Perdere il lume della ragione" dove lume [lat. lūmen (-mĭnis), affine a lūx «luce»] rappresenta, in genere, la sorgente luminosa, l'apparecchio o il mezzo, anche molto semplice, per produrre luce artificiale e illuminare, mentre la frase in sè ha il significato di "Adirarsi al punto di non ragionare più, diventando come ciechi per la rabbia." Pertanto "lume" nell'accezione originale è la luce che irraggia dalla mente stessa o da cui la mente è irraggiata e che da controllo alla coscienza dei propri atti: "Lume v'è dato a bene e a malizia, e libero voler (Dante)". Focilide diceva: "Dio ha distribuito armi a tutto ciò che esiste: ha dato ali all’uccello, zanne al leone, corna al toro, pungiglione all’ape; all’uomo ha dato la ragio­ne" e Norberto Bobbio sosteneva che "La ragione non è un lume: è un lumicino. Ma non abbiamo altro per procedere in mezzo alle tenebre."  Ed allora vi può essere un "lume" nella follia che, per sua natura, oscura la coscienza e l'intelletto e lo rende incapace di percepire e ragionare sulle cose della vita per quelle che sono, con i sensi disallineati e sparpagliati come delle piume al vento?

Probabilmente il senso da dare alla parola utilizzata è più complesso rispetto a quello che appare emergere da una lettura superficiale delle cose. Si perché la poetica di questo libro non è semplicemente "poesia", non è riconducibile né riducibile a una elaborazione del sentire poi riversato nelle parole, nel lirismo dei canti, ma è improntata a un'indagine, sofferta, travagliata, profonda nel mondo (molto spesso immondo per l'agonia che si porta appresso) della malattia, del dolore, delle scollature emozionali e, il più delle volte, corporee che questo stato patologico impone all'essere umano, alla sua anima, alla sua espansione interna, alla sua esternalizzazione in una con le catarsi del sentire, del dire, del non dire, del bisbigliare, dell'urlare o semplicemente stare a guardare con gli occhi del disincanto, di chi ha mille coltelli piantati nel petto. Per questa ragione c'è una "luce" un "lume" nella follia, nel buio che avvolge il malato mentale, ed è la "verità" che sgorga dagli occhi di suo zio. Da quegli occhi, prendendoli in prestito, immedesimandosi empaticamente con quel abbandono di mente e corpo, cerca di aprire le tenebre, squarciando l'assolutezza della pazzia, diventando altro e, nell'altra anima sprofondando, ci invita a spogliarci di ragione, di apparenza, rivestirci di dubbio, di incertezza. Sicuramente è questo il concreto messaggio "evangelico" della sua poesia, quell'essere fratello dell'ultimo, quella misericordia e carità che alla società moderna difetta totalmente perché: “Gesù Cristo non ci vuole come principi che guardano in modo sprezzante, ma come uomini e donne del popolo.” [Papa Francesco]

- La dedica del libro -

Il simbolismo che ne deriva, nell'affrontare il tema, pericoloso eppure, per l'autore, "edificante" della follia, della pazzia, della devianza mentale dal normale - o da quello che viene considerato sano e naturale nell'evoluzione dell'uomo moderno - emerge dal sotterraneo della privata esperienza dell'autore, l'internamento in manicomio dello zio Gaetano*. In relazione a questo evento il poeta appare così rammaricato, angosciato, quasi ripiegato su se stesso, da mettere al mondo, spontaneamente, stati d'animo assolutamente necessari per far rivivere nei versi l'esatta consistenza del dramma che si va dipanando. Qualcuno diceva che la "ragione è un angelo tra l'uomo e Dio" e la follia? Se ragioniamo per convenzioni dovrebbe essere l'esatto opposto, ma questo libro delle convenzioni ne fa carta straccia. Si distacca completamente da come "gli altri" guardano la pazzia, l'alterazione psichica e mentale, per dare una "visione" che si tuffa nelle profondità delle vite e riemerge con segreti inesplorati, con verità scioccanti, con riflessioni che scrostano il superfluo della vita e vanno all'essenziale e lo mettono in evidenza anche quando non si vorrebbe o si dovrebbe farlo. 

Per De Vivo, invece, il vero, l'autenticità (come già ho anticipato prima) abita negli occhi della follia, in quelli della zia Olga ma soprattutto in quelli di suo zio Gaetano, picchiato a morte dagli infermieri e che, come un (povero) Cristo pazzo, il poeta osserva nella sua immobile (quasi catartica) follia. E da quello sguardo, così dolce eppure così fortemente penetrante, noi lettori riusciamo a vedere quell'anima bambina che, adesso, non riusciamo neppure a comprendere bene dove si trovi ma esiste, c'è, si muove, anche se le ossa, i muscoli, la pelle, appesantiti dalla vecchiaia, rimangono apparentemente fermi. L'empatia è così viva e piena da lasciarci senza fiato. 

Per tale ragione, probabilmente, a mio modesto avviso, tra le tante belle è questa la più bella delle sue poesie, la più cruda, eppure più vera, melodiosa nella sua essenza di dolore filiforme, come le mani del malato: "Ti ho salutato/mentre eri accasciato alla sedia/come un fuscello sei caduto sui miei piedi/ sull’acqua di un pavimento freddo e/ottagonale./ Ospedale: termico serbatoio del delirio./ La fuori sai c’è un manto celeste/ appoggiato all’albero dei limoni/ frenetico al tempo che ti passa a fianco/ digiuni/ e svuoti la mia anima fuori./ Penso alle tue tre sorelle/ angeli senza ali/che ti assistono./ Che un fiume di verità sgorga dai tuoi occhi./ Il mio sguardo non regge il tuo/ Signore ridonami tutto l’amore dei suoi occhi./ In quegli occhi chiari/ ondeggia il truce destino/ odi gli infermieri che ancora gridano/ ...“come cane picchiato a sangue”./ Hai le mani filiformi/ lo sguardo perso chissà in quale abisso./ e la tua anima da bambino/ dov’è./ Non sei nulla dell’animale cresciuto/ vecchio./ Ti osservo in un cielo stellato e grigio,/ con uno sguardo di coscienza azzurra/ di un Cristo pazzo." [Ti ho salutato pag. 43]

Il lume della follia è un’opera che vibra nel sangue dell'autore, che scalcia nelle parole, nelle immagini, su cui non posso soffermarmi più di tanto (per ovvie ragioni), ma che - da quanto rivelatomi dalla mia "personale visione oculare", ossia mia figlia Ginevra - si comprendono con immediatezza e senza necessità alcuna d'interpretazione perché, parole sue: "I colori e le linee, severe e pesanti, utilizzate nella pittura, insieme al fondo di colore, quasi grezzo, esprimono tutto il disagio emozionale dei personaggi raffigurati" e, ancora, è un'opera che traspira come "sudario" di tormento e smarrimento, nella camicia della pelle, di quell'involucro che, solitario, sembra essere l'unica compagnia di normalità e sanità in un uomo insano di mente. Le dolorose spine di cui è sofferente l'anima del poeta emergono tutte, e tutte insieme, nelle poesie che portano a galla testamenti d'incoscienza, relitti di esistenze, corpi lasciati alla muffa e alla dimenticanza, ombre crude e crudeli che avvolgono l'umanità in balia delle insensatezze del mondo e dei mondi che gravitano nelle cellule folli di chi si è perso nel sentiero della ragione. Un minuzioso testamento spirituale in un drammatico dialogo con un’umanità che non sembra avere scampo, braccata dal notturno, dal nero delle ombre, dalla cupezza delle crisi psichiche, sottomessa alle tribolazioni più crudeli, drammatiche, addirittura messa al rogo come demoni da esorcizzare. 

Alla parola utilizzata, che da voce al dramma, al nulla, al vuoto si annoda un legame ancestrale, le stasi della coscienza, le bizzarrie dell'incoscienza, annodate, strette, come trecce di carne e sangue che cola, lo si riesce a percepire senza vederlo né toccarlo, nelle dimensioni affidate alla narrazione di stati interiori esteriorizzati con la devozione che si da ad una reliquia sacra. "Ero matta in mezzo ai matti. I matti erano matti nel profondo, alcuni molto intelligenti. Sono nate lì le mie più belle amicizie. I matti son simpatici, non così i dementi, che sono tutti fuori, nel mondo. I dementi li ho incontrati dopo, quando sono uscita." Lo diceva Alda Merini e aggiungo altresì che, probabilmente, un folle è semplicemente "uno come noi che, in una certa fase della sua vita, ha deciso di buttare la maschera che gli impone la società".

Nella solitudine che, recalcitrante, pervade tutto il testo, nell'assolutezza dell'animus cogitante, nella "mirabolanza" dell'imperfezione vista come un dono piuttosto che come un handicap, ma solo da una parte dello sguardo sensibile, il resto è cosa morta se affidato alla cecità dell'umanità spinta in un cammino all'indietro, completamente sganciata dalla percezione dell'altro e insensibile al dolore e alla sofferenza altrui perché non riconducibile nei confini della "propria" proprietà privata ma relegata all'altrove, a quel mondo così distante da noi e da tenere a debita distanza.

Eppure il poeta, nella sua personale Via Crucis, mette a punto una sorta di metempsicosi, di immedesimazione profonda, viscerale, carnale, finanche umorale, con i personaggi che osserva dal suo focus personale, con l'occhio indagatore di chi, complice un'estrema sensibilità, riesce a percepire quello che nessuno "vede". Per questo passa con naturale e incredibile disinvoltura dal percorso intimistico di un personaggio familiare, che ha creato nella sua esistenza un taglio trasversale, alle follie di Nietzsche, Kafka, Van Gogh, Rimbaud, in una posizione che, sicuramente, è paragonabile a quella agognata da Frida Kahlo: "Vorrei essere dietro il sipario della follia: mi occuperei dei fiori, dipingerei l’amore, il dolore, la tenerezza e riderei dell’idiozia degli altri e tutti direbbero: poverina è matta e soprattutto riderei di me."

Si comprende quindi come poesia e pittura si leghino inscindibilmente per dare vita e forma e dimensione ad una sintassi "folle" dei lessemi, ad un linguaggio fatto di estrema concretezza, quasi radicale, ossea, dove si esplorano caverne di marciume, cruente ferite, dove si ricevono sputi, violenza, ed ogni cosa è calata nella coesistenza irreale, imperfetta, quasi simbolicamente disvelante, di vite e storie apparentemente felici altre crudelmente disperate, o allegre per pochi brevi istanti, o per pochi e scarni ricordi, tanto sono ridotti all'estrema "anoressia materiale".

De Vivo, tuttavia, non cade nel tranello della "romanticizzazione dello stato di sofferenza" bensì cerca di prenderlo, anatomicamente, sanguignamente, per quello che è cercando di elevarlo a una dimensione che non soggiace al "soggettivo" ma cerca nell'universale il punto da cui far partire la sua indagine che ha il sentore o forse dovremo dire il sapore della investigazione dell'"occulto" ossia di quel mondo che non riusciamo a comprendere perché ci è totalmente oscuro ovvero sconosciuto e che temiamo proprio per l'assenza di percezioni materiali, conoscitive. Occulto infatti [dal lat. occultus, propr. part. pass. di occulĕre; v. occultare]. significa nascosto, segreto (in contrapposizione a palese, manifesto) ed è un termine che viene utilizzato rispetto a cose che siano considerate per sé stesse impenetrabili, inconoscibili alla mente dell’uomo, o comunque recondite, misteriose: ad esempio "le occulte vie della Provvidenza"; "le occulte influenze degli astri" oppure, citando Dante: "Lo spirito mio (...) per occulte virtù che da lei mosse, d’antico amor sentì la gran potenza". 

Qualcuno afferma che l'uomo ha paura di quello che non conosce, in questo caso possiamo affermare che l'uomo ha paura di quello che non si "sforza" di conoscere. Una conoscenza che in Prisco De Vivo non manca, tanto la sua analisi, la sua cultura dell'altro, del diverso, dell'uomo o della donna considerato "anormale" (se si può usare questo termine imperfetto e decisamente spurio) per la maggioranza dell'umanità, è decisa, concreta, fatta di materia che lui stesso plasma, non solo nella parola ma anche nelle dita, nella mano che dipinge e crea, con il dono dell'arte pittorica, identici mondi complessi come quelli che vengono alla luce con la poesia, con un dualismo direi quasi "bipolare" per rimanere nel campo di quello che i manuali diagnostici oggi definiscono "disturbo bipolare" caratterizzato da episodi maniacali o ipomaniacali e depressivi e di cui, la poetessa Sylvia Plath, soffriva (secondo l’ottica psicoanalitica la mania è una risposta difensiva nei confronti di forti sentimenti di incompetenza, perdita e abbandono). Per questo l'indagine di una condizione estrema, come quella dedicata allo zio internato, ovvero alla zia, affiorano dalle pagine ed ambiscono a redimersi per rivendicare libertà espressiva tramite il potere del dipinto e della scrittura: "Zia Olga/ Zio Gaetano/sopra le stuole del paradiso rimanevano appesi/alle porte dell’Eden./Gli infami infermieri/gli scambiavano mutande e sigarette./Stretti per mano con soldatini/e appiccicosa marmellata alle dita/sorridevano alle facce di luna./Il piombo del silenzio,/un lento gelo si spegneva/nei loro sguardi." [Zia Olga e Zio Gaetano pag. 37]

L'impressionismo che ne deriva è quello che si incardina nella paura di "mostri notturni" o nei lineamenti "inespressivi" della "follia" come nei dipinti di Theodore Géricault (l'artista dedicò numerose tele ai malati di mente, in uno studio teso a ritrovare nella inespressività degli alienati le linee di confine tra l’umano e ciò che non è più tale) oppure in quello più famo di Henry Fuseli, The Nightmare (L'incubo) del 1781.

Per tutte queste ragioni, e probabilmente per altre ancora, Il lume della follia è un libro da tenere in biblioteca, da leggere e rileggere per avere concretezza che il mondo non è solo quello "meraviglioso" - che ci viene propinato nelle pubblicità ingannevoli - ma è anche altro, un altro che dobbiamo conoscere, capire, comprendere per essere davvero considerati "esseri umani". 

IL LUME DELLA FOLLIA

Mi confessai alle vostre incredulità.
Gli amici della sera
mi derisero tutti
appendendomi crani e rosari d’osso al collo.
Con infinita dolcezza
tra gli sputi delle abiure
attesi nell’alba
IL LUME DELLA FOLLIA.
[Pag. 31]



*Le illustrazioni presenti in volume sono riproduzioni di opere d’arte  edite e inedite di Prisco De Vivo, afferenti ai cicli pittorici denominati Le bamboline in bocca, Le vasche, Gente di plastica (Omaggio a Pippo Del Bono). 

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