venerdì 27 giugno 2025

Le stelle di Silvia - L' amore tragico tra Liliana e Totò

L’immagine dell’uomo è associata spesso a quella del predatore che studia strategie per conquistare la donna dei propri sogni. In realtà non è così. Spesso sono le donne a lanciare i primi segnali, quasi impercettibili a volte, un gesto, una parola, uno sguardo che attiri l’attenzione. Vogliono che quell’uomo si accorga di loro, e una volta che questo accade, il gioco è fatto.


La donna nelle leggende, nella mitologia e nelle fiabe, spesso è stata descritta come una maliarda, una fattucchiera, una maga, che utilizza poteri magici per far cadere l’uomo ai propri piedi; ma la donna innamorata è disposta a fare di tutto affinché l’oggetto dei suoi desideri si accorga di lei e spesso le armi di seduzione che sciorina, vengono utilizzate solo per il disperato bisogno di essere amate.

Il forte potere emotivo che la donna riesce ad avere sul genere maschile, spaventa, disorienta, e per questo è stata ed è oggetto di persecuzione, di sopraffazione, non dimentichiamoci delle donne mandate al rogo nel medioevo perché ritenute streghe, figlie del diavolo. 

Forse non è facile capire che la nostra potenza seduttiva spesso nasconde la nostra fragilità, la capacità di donarci incondizionatamente e senza secondi fini, solo ed esclusivamente per amore, né “sante” né “puttane” ma semplicemente donne.

A questo proposito voglio raccontare ai lettori di Plenilunio, la storia poco conosciuta di Liliana Castagnola.

Liliana (Eugenia) Castagnola, a soli 16 anni, negli anni antecedenti la prima guerra mondiale, è già acclamatissima e conosciuta dal pubblico come chanteuse e ballerina e si esibisce in molti teatri europei. La sua fama, artisticamente parlando, non è paragonabile e quella di Lina Cavalieri e della Bella Otero, ma gareggia con loro in fascino e avventure. In scena fa impazzire gli uomini: con la frangetta nera, il sorriso ironico, lo sguardo misterioso e ammiccante, gli atteggiamenti provocanti e sensuali, riesce a scatenare le loro fantasie.  Infatti la storia della Castagnola è sempre in bilico fra la cronaca rosa e nera occupando spesso le pagine dei giornali d’epoca che la descrivono come una femme fatale

Liliana viene accusata, in Francia, di aver provocato con le parole «Battetevi a duello, il vincitore mi avrà» … un duello tra due marinai che si contendevano le sue grazie; uno di loro rimane gravemente ferito, Liliana viene espulsa e fa ritorno in Italia, ma questo episodio sembra rafforzare il suo alone peccaminoso.  Un nobile genovese si riduce sul lastrico dopo aver sperperato con lei tutto il suo patrimonio e un costruttore milanese le spara due colpi di pistola mentre è nella vasca da bagno, colpendola in fronte solo di striscio ma, si suiciderà credendo di averla uccisa. Un giovane spasimante dilapida per lei tutti i suoi averi e i familiari le fanno causa con l’accusa di averlo plagiato al punto di avergli fatto perdere il senno.

Eppure una donna apparentemente così forte e volitiva verrà letteralmente soggiogata, fino al punto di togliersi la vita, da Antonio De Curtis in arte Totò, all’epoca dei fatti all’inizio della sua carriera artistica.

La donna giunge a Napoli nel dicembre del 1929 scritturata dal Teatro Santa Lucia. Incuriosita dal veder recitare Totò si presenta una sera a un suo spettacolo, destandone l’attenzione. 

«È le sette meraviglie e poi da tutto quanto si capisce che è un vulcano, un fuoco, una forza della natura».

Così Salvatore Rubino, segretario e servo di scena dell’attore, gliela descrive quella sera dopo averla sbirciata dal palcoscenico scostando il sipario. Lei è venuta lì da sola, il volto pallido, ombreggiato da un cappellino di velluto nero, getta ombre sui bellissimi occhi verdi. Antonio lusingato e affascinato da questa donna sensuale che lo è venuto a cercare, incurante della cattiva fama che accompagna la ragazza, parte all’attacco certo di riuscire a conquistarla.  

Con un biglietto e un grande mazzo di rose Totò, il mattino successivo, inizia il corteggiamento: «È col profumo di queste rose che vi esprimo tutta la mia ammirazione». Lei gli risponde: “Vi ringrazio, gentile signore, per le belle rose che ho gradito con molto piacere, intanto suppongo non vi dimentichiate che dopo un certo numero di giorni queste meravigliose rose appassiranno, che fare per contraccambiarvi? Sabato al Santa Lucia, canterò per voi le mie migliori canzoni”.

Successivamente Liliana lo invita alla Pensione degli artisti Ida Rosa in Via Sedil di Porto, dove abita in un appartamentino composto da un ingresso, una sala da pranzo e una camera da letto, gli si avvicina per donargli una foto nella quale appare con un abito di scena chiaro e vaporoso, i capelli alla garçon, la frangetta a coprire la cicatrice lasciatele dal colpo di pistola, e la dedica: “Totò, un tuo bacio è tutto”. È l’inizio del loro amore.

Liliana sente gli anni pesarle addosso, ormai sta per compierne 35, troppi per il mondo spietato del Café Chantant; ha avuto ai suoi piedi molti uomini, ma, innamorata, crede di aver trovato nel giovane attore la fine del suo peregrinare. Nell’intento di legarlo a sé, gli propone di lavorare insieme “Sarò la tua compagna, la tua artista devota, e ti sarò grata per il bene che mi farai”.  ma, Totò sa perfettamente che la donna non sarà mai la sua partner ideale, inoltre giorno dopo giorno, sta perdendo interesse ai suoi occhi. Lo tormenta con scenate di gelosia e pressanti richieste di stabilizzare il loro legame, assumendo un’immagine scomoda e ben diversa da quella di irraggiungibile seduttrice che ha affascinato l’attore.

Il pensiero del matrimonio o di una convivenza con la Castagnola sono ipotesi lontanissime per Antonio De Curtis; il sentimento della donna è veramente eccessivo per lui, ma per il timore di perderla non ha il coraggio di troncare definitivamente con lei, illudendola. Dopo quasi un anno di liti furiose e successive riappacificazioni accetta, per allontanarsi da lei, un contratto con la Compagnia Cabiria che lo avrebbe portato a lavorare a Padova.

Liliana lo supplica di non abbandonarla ma Totò è irremovibile. Così, disperata la donna prende una decisione estrema: si trucca, si veste con i suoi abiti più belli e nella sua camera della "Pensione degli Artisti" ingerisce un intero tubetto di sonniferi. Prima di morire, scrive al suo amato un ultimo disperato messaggio: “Antonio, potrai dare a mia sorella Gina tutta la roba che lascio in questa pensione. Meglio che se la goda lei, anziché chi mai mi ha voluto bene. Perché non sei voluto venire a salutarmi per l’ultima volta? Scortese, omaccio! Mi hai fatto felice o infelice? Non so. In questo momento mi trema la mano… Ah, se mi fossi vicino! Mi salveresti, è vero? Antonio, amore mio, sono calma come non mai. Grazie del sorriso che hai saputo dare alla mia vita grigia e disgraziata. Non guarderò più nessuno. Te l’ho giurato e mantengo. Stasera, rientrando, un gattaccio nero mi è passato dinnanzi. E, ora, mentre scrivo, un altro gatto nero, giù per la strada, miagola in continuazione. Che stupida coincidenza, è vero? …Addio. Lilia tua” Poi si sdraia sul letto, allestendo la scena in cui verrà trovata il giorno dopo, la mattina del 3 marzo 1930.

Totò, in partenza per Padova, sconvolto si precipita alla pensione degli Artisti. Sa di averla ingannata, di aver sottovalutato la profondità del sentimento della donna, preso dall’idea che avendo avuto molti uomini, non si dovesse sentire responsabile verso di lei.

«È morta, se n’è ghiuta ‘n paraviso!

Pecchè nun porto ‘o llutto? Nun è cosa

rispongo ‘a gente e faccio ‘o pizzo a riso

ma dinto ‘o core è tutto n’ata cosa!»

Il rimorso per la morte di Liliana lo accompagnerà per tutta la vita, al punto che, anni dopo, contravvenendo alle tradizioni, chiamerà la sua unica figlia Liliana al posto di Anna, il nome di sua madre.

Pochi giorni dopo la tragedia, decide che Liliana riposi nella cappella della famiglia De Curtis, al Cimitero del Pianto di Poggioreale di Napoli. Chi visita la tomba di Totò trova, infatti, appena sopra la sua, quella di Eugenia Liliana.

Antonio De Curtis conserverà nella tasca fino alla sua morte il fazzoletto intriso di lacrime e rimmel di Liliana, trovato il giorno del suo suicidio.

Una famosa canzone recita “Che non si muore per amore è una gran bella verità” ma la storia che vi ho raccontato dimostra esattamente il contrario. Come tutti i sentimenti estremi, si può morire anche per troppo amore, per troppa solitudine, per troppo cinismo e indifferenza. Nel nome dell’”amore” hanno perso la vita tante donne, intrappolate in relazioni distruttive e sbagliate. Perché per amare in maniera sana e positiva, dobbiamo imparare in primis a riconoscere e apprezzare il valore  della nostra unicità e a volerci bene per quello che siamo: preziose. 

Silvia Cozzi 

La storia di Liliana e Totò è tratta e riadattata per Plenilunio,  dal copione di “Dicono di lei” spettacolo nato da un’idea di Pier Paolo Buzzacconi, scritto e condotto da Silvia Cozzi e Pier Paolo Buzzacconi – Diritti riservati


giovedì 26 giugno 2025

Alta Marea - Bruno Caravella - Racconti



"Rimmel" - Un giorno di Gennaio, tempo fa...

Forse me lo regalai un giorno di gennaio. Un tredici gennaio, importante per me. Il freddo del vento gelido mi tagliava il viso, erano inverni veri.
Comprai il disco in vinile, si chiamavano long playng allora, ai magazzini Standa.

Tenevo stretto il disco sotto il mio eskimo, quasi come un tesoro che non dovevo perdere altrimenti come avrei fatto a ricomprarlo dopo le rinunce per raccogliere la somma adeguata?

Era il tempo dei primi sogni, della speranza nel futuro; il tempo delle lotte e delle rivoluzioni, delle vittorie e delle sconfitte.

Era il tempo dei primi amori profondi, delle delusioni, delle ragazze di cui t’innamoravi ma alla fine, per la tua timidezza, si fidanzavano sempre con gli altri.

Era il tempo che la “compagna” ti abbracciava, stringeva, baciava e tu pensavi che fosse slancio politico, liberatorio.

Era il tempo del primo sesso completo.

Era il tempo dei morti e delle guerriglie quotidiane sul terreno di battaglia chiamato Italia.

Il disco, l’Lp, era “Rimmel” di Francesco De Gregori, cantante autore che, proprio con quell’opera, avrebbe raggiunto il suo apice artistico musicale di cantautore. Artista osteggiato dalla critica musicale colta di quel tempo, che lo accusava di scarsa potenza letteraria e di povertà musicale, e da frange estremiste di sinistra, che lo accusavano di essere un idealista traditore nonché autore borghese di canzoni ermetiche che non miravano al cuore ed alle istanze rivoluzionarie del popolo.

Dopo i primi colpi di puntina del giradischi gli accordi del pianoforte introdussero la canzone “Rimmel”, che dava il titolo all’album. Nell’immediato mi colpì il fatto che capii che in Italia si cominciava a cantare qualcosa di diverso, di altro e di oltre, qualcosa davvero rivoluzionario che non seguiva i modelli canori ancora in voga in quegli anni.

Ciò che mi coinvolse emotivamente fu, però, il timbro di voce del cantante: caldo, pacato, equilibrato nel seguire il testo, commosso nel calarsi nelle canzoni, quasi come uno storyteller, un narratore che affabula e affascina l’ascoltatore.

Tutte le canzoni dell’album non erano facilmente comprensibili e richiedevano un ascolto attentissimo e una particolare predisposizione a coglierne i significati nascosti dei versi, a parer mio fatto appositamente dal cantante, oltre ad una conoscenza culturale medio-alta.

Ascoltavo “Rimmel”, più l’ascoltavo e più mi affascinava. Una canzone che ammaliava, grazie soprattutto al timbro ed all’interpretazione di De Gregori, che ti trasportava oniricamente in luoghi indecifrabili, emotivamente in qualcosa che sapeva di pathos, di misterioso.

Con gli anni sarebbe diventata la canzone simbolo della mia vita.

Rimmel, per truccarsi le ciglia. In realtà racconta una normale storia d’amore come tante.

Una storia d’amore finita, come tante, in modo banale: lei ti lascia perché innamorato di un altro.

Forse l’amore è il ”trucco” universale che muove l’umanità . O forse è altro, forse è libertà, forse è prigione.

Un giorno di gennaio, un giorno importante. “Rimmel” sprizzava dal giradischi. Il futuro era già passato.

Giù, Alice mi aspettava.

Tu, ancora non c’eri.



Le stelle di Silvia - Un tocco d'affetto di Giuseppina Manganelli


Uno dei più bei regali che la poesia mi ha donato, è l’amicizia di alcune persone speciali che mi hanno aiutata a crescere e a rappacificarmi con il mio vissuto doloroso attraversando le loro esperienze di vita, in una condivisione di intenti e di confidenze scaturite da una forte empatia e anche perché no? dalla sofferenza che ognuno di noi ha vissuto in maniera differente e che, in qualche modo, sta lottando per superare. Uno di questi doni è Giuseppina Manganelli.

L’ho conosciuta grazie alla nostra collaborazione con Emanuela Sica. Giuseppina è stata docente di inglese ed è amante della poesia, così si è dilettata a tradurre alcuni dei miei versi e ci è riuscita magistralmente, mantenendone intatta la musicalità e il significato.

Successivamente ci siamo viste a Roma alla presentazione della silloge di Carla Cenci e abbiamo deciso di approfondire la nostra conoscenza.

Durante uno dei nostri incontri, Giuseppina mi ha parlato della sua malattia. Mi ha stupita la calma e la naturalezza con cui mi ha spiegato la sua situazione di malata oncologica, come se non volesse rattristarmi, ma volesse solo rendermi partecipe di una condizione che fa parte della sua vita e sta affrontando con determinazione come ci racconta in: “Un tocco di affetto” il libro che mi ha regalato. 

“Un tocco di affetto” è un diario delle giornate vissute da questa donna fantastica, ad affrontare con forza e coraggio un male devastante, a volte nella disperazione e nella paura di non farcela, ma forte della vicinanza di tantissime persone che le vogliono bene. Perché quando si è soli tutto appare triste, spento e arido ma quando si è contornati di premure e di abbracci, si affrontano le difficoltà con una spinta in più, un’energia che solo l’amore riesce a dare.

Giuseppina cura il suo aspetto fisico, si dedica alla musica studiando le canzoni che le piacciono, dipinge, traduce poesie in inglese, impara la metrica nel rifugio caldo e sicuro della sua famiglia, sostenuta dalla fede, contornata dai suoi cari e dai tantissimi amici che le dimostrano solidarietà e compiono quei piccoli gesti che possono sembrare poco, ma che invece sono importantissimi per chi sta attraversando un periodo difficile.

Giuseppina sa che la vita è un dono prezioso e ha seminato tanti piccoli germogli nel suo giardino di cui adesso sta raccogliendo i frutti, perché quando si semina amore si raccoglie amore.

Io la stringo forte, forte al cuore e le auguro di proseguire con fiducia il suo cammino luminoso, perché la luce interiore che emana non si spegnerà mai ed è una guida per chi ha bisogno di trovare la strada. 

In fondo è solo “un tocco d’affetto” ma può aiutare a scalare montagne.

Silvia Cozzi




mercoledì 25 giugno 2025

BiblioIlde - Cuore nascosto di Ferzan Ozpetek


Il dolore di una assenza inconsapevole, il senso profondo di solitudine e di mancanza d’amore che prova Alice, la protagonista di questo struggente libro, che scava nel lettore sentieri sconnessi che a poco a poco portano ad una verità assolutamente inaspettata.

Il rapporto con sua madre Adelaide, assolutamente privo di slanci emotivi e di considerazione nei suoi confronti delinea un percorso di sofferenza e la rinchiude in una gabbia da cui non riesce ad uscire. L’arrivo improvviso in casa di Irene, una donna molto avvenente e vestita in modo originale, essendo un’artista, sorprende tutti e soprattutto la piccola Alice, a cui lei si rivolge, chiedendole cosa voglia fare da grande e lei risponde che il suo sogno sarebbe quello di fare l’attrice

Alice aveva avvertito subito un forte legame con lei, le ispira stranamente molta fiducia: avrebbe voluto qualcuno con cui confidarsi e l’aveva stranamente trovata in Irene che, quando se ne va, le regala un braccialetto con l’immagine di una farfalla che sua madre poi le toglierà, con estrema cattiveria, ma quel disegno rimarrà per lei sempre importante e lo userà come copertina del suo quaderno di appunti.

La notizia che Irene le ha lasciato, prima di morire, un appartamento nel centro di Roma rappresenta per lei una sorta di punto di non ritorno: quell’eredità inaspettata le dà una forza e una determinazione che non ha mai avuto e decide di non ritornare più a casa. Quell’appartamento enorme, pieno di oggetti d’arte la fa immergere in un mondo sconosciuto, ma un mistero vi aleggia: una porta chiusa, la cui chiave è stata affidata ad un notaio. Aprendo quella porta, Alice viene attirata in una realtà assolutamente nuova e meravigliosa: scopre innumerevoli quadri, dipinti in due stili diversi e il ritratto di un giovane, opera di Irene, con la dedica: “A Tancredi, il mio dio dell’amore” assieme a tanti foglietti sparsi, simili a messaggi cifrati, pagine di diario strappate. Nascosta, Alice trova una lettera, indirizzata a lei, in cui Irene le racconta il suo dolore e le sue emozioni: “ho chiuso il mio cuore morto in questa stanza, dove c’è la mia vita, finchè sono stata viva”. Irene, assieme alla casa, le aveva affidato il suo segreto più prezioso perché ne avesse cura e lo conservasse. Attraverso le parole di Irene, si avverte l’amore profondo e la passione che nutriva per Tancredi, che le era apparso come un miraggio, “una gabbia di fuoco dove il nostro amore brucia ogni cosa”: egli dipingeva con il cuore, si erano divisi lo spazio, ciascuno aveva il suo angolo, pieno di colori e pennelli. Vi era un elemento importante che rappresentava questo loro sentimento che li travolgeva: i ”cuori sovrapposti” che avevano dipinto per simboleggiare il loro legame; quando uno di loro usciva portava il foglietto con quell’immagine, piegato in quattro per non perdere il contatto tra loro.

Un giorno Tancredi non era più tornato: Irene lo cerca dovunque, ma “ho smesso di cercarti quando ho capito che non volevi essere trovato”, se ne era andato, abbandonandola ad un tempo sospeso, avrebbe voluto spezzare quella vita in attesa. Irene l’aveva cercato anche in Sicilia, nel suo paese d’origine, proprio il giorno in cui era stata a casa di Alice, ma non aveva trovato nemmeno una traccia, aveva paura che fosse tornato nel luogo che odiava di più e da cui era fuggito. Irene, dopo quel viaggio aveva deciso di rinascere e aveva chiuso a chiave quella porta, dove sarebbe rimasto nascosto il suo cuore e non avrebbe più preso in mano un pennello.

In quella lettera destinata a lei, “bambina dagli occhi grandi, vista per alcuni minuti in uno dei momenti peggiori della mia esistenza”, creatura piena di sogni inespressi, le suggerisce di credere fermamente in un ideale e che “qualsiasi cosa accada, continua a risplendere e conserva il tuo cuore intatto”

Ad un certo punto, sembra che il sogno di Alice si possa realizzare: ad un provino, recita istintivamente un monologo, in cui effondeva tutta se stessa, la marea di lacrime e la sua rabbia potente e irrefrenabile nei confronti di sua madre: “ho imparato molto presto a nasconderti i miei sogni”, ma poi si rende conto di avere altre priorità. Avrebbe realizzato il sogno nascosto di Irene, organizzando una mostra con tutti i loro dipinti, che riflettevano l’alchimia magica e indimenticabile che esisteva tra loro.

Alice scopre un’ultima lettera, la più importante e definitiva, che Irene le aveva lasciato: uno scritto, accartocciato in un cassetto, che lei aveva trovato mentre piangeva la scomparsa di Tancredi, che custodiva un segreto. Accanto ad esso vi era un messaggio di Irene, rivolto a lei che diceva: “chiediti sempre cosa ti rende davvero felice”.

I

martedì 24 giugno 2025

Alta Marea - Doris Bellomusto - Racconti

"Arrivederci, Strega!"

Un bacio rubato è un dono degli Dei, non si capisce mai chi è il ladro e chi subisce il furto, se è poi vero che un bacio si possa rubare. Se è vero, a me lo rubò un ragazzo dolcissimo che ogni tanto mi raccontava i fatti suoi e mi offriva la pizza. Da perfetti sconosciuti, ci eravamo scambiati un sorriso e uno sguardo, ascoltando un artista di strada che suonava il violino su Corso Mazzini e, forse, ci eravamo riconosciuti simili nell'irrequietezza. Diventammo amici, nient'altro. Ci vedevamo poco, ma ci raccontavamo tanto. Lui veniva in Calabria a lavorare, mi sembra di ricordare che aggiustasse antenne. Una volta venne a Fagnano e conobbe mia nonna, forse, lui non lo ricorda, ma lo ricordo io, che ne fui molto contenta. La sera in cui mi rubò un bacio era una sera qualunque, io indossavo un paio di pantaloni di velluto a coste, ero stata in biblioteca a studiare tutto il giorno, avevo un forte mal di testa e per questo prosaico motivo mi ero ritrovata sul letto della sua stanza d'albergo, lui aveva un moment da offrirmi. Ci ritrovammo vicini e ci scambiammo le nostre irrequietezze, lui si aggrappava con dolcezza ai miei capelli, li attorcigliava intorno alle dita e nel frattempo si raccontava. Alle parole si mescolò quel bacio. Ci spaventammo un po', non ce ne furono altri. 

Ho imparato che ci sono incontri magici, casuali o non casuali non ha importanza, freschi e selvatici, come possono essere le rose. 

Ho imparato che si può avere paura, che si può tremare per un notte intera, che la dolcezza non ha remore, che i capelli possono farsi ancora di salvezza e, infine, che sono una strega. Me lo disse lui, riaccompagnandomi a casa, mi guardò con aria confusa e mi salutò così: "Arrivederci, strega!" 

The Moonlight's Verses - Amalia Leo


Giuseppina Manganelli traduce in inglese Amalia Leo


My dilemma
is halfway
between the desire and the unease
of a normal life,
days opposed to nights
in front of my closet,
in a mess 
of ties and stiletto heels.
A matter 
of being
and appearing
beyond the obvious:
forced convention
of gender definition.
A stormy sea is 
my split image:
being myself
but feeling different
in the prison
of an awkward casing
that does not belong to me.
Reflecting
with the wrinkles of my soul
and being able to cry out
to want to be
just
a Person 



Il mio dilemma
è a mezza strada
tra il desiderio e il disagio
di una vita normale;
giorni opposti alle notti
davanti al mio armadio
disordinato,
di cravatte e tacchi a spillo.
Questione
di essere
ed apparire
al di là dell’ovvio:
convenzione obbligata
di definizione di genere.
E’ un mare in burrasca
la mia immagine sdoppiata:
essere me stesso
ma sentirsi diverso
nella prigione
di un involucro ingombrante
che non m’appartiene.
Riflettere
con le rughe dell’anima
e riuscire a gridare 
di voler essere
soltanto
una Persona.


 

domenica 22 giugno 2025

Pensieri Stravaganti - La disfida dello Smartphone

A cura di Mino Mastromarino - La leggenda del telefonino che fa tutto, e lo fa sempre bene 

Quando il Ministro dell’Istruzione ripristinò – nel dicembre 2022 - il divieto di uso dei cellulari durante le lezioni, lo fece sulla scorta di pareri scientifici univocamente dimostrativi dei  danni per l’attenzione e l’apprendimento degli alunni, nonché per l’autorità e l’autorevolezza del corpo docente. Epperò, scattò immantinente la reazione contro il luddismo governativo della Grande Stampa Illuminata. Cominciò, con una buona dose di ovvietà, Gramellini: “Non si ferma il vento con le mani”. Antonio Polito, sempre sul Corriere della Sera, almanaccò: “ Se ci pensate, l’uso dello smartphone è ormai perfettamente compatibile con tutte le altre nostre attività. Al lavoro lo usiamo di continuo, per rispondere a un messaggio WhatsApp, fare di conto con la calcolatrice, verificare un dato. Nel tempo libero, pure. Perfino di notte, ci facciamo luce con la torcia del telefonino. lo smartphone non danneggia affatto la nostra capacità di concentrazione, ma anzi ci facilita l’azione, aumentandone l’efficienza. Rappresenta quasi un’espansione delle nostre abilità mentali. Ma pensate a quali effetti interattivi in classe…gli studenti potrebbero «farsi» la lezione da sé, o «farla» insieme con il prof, invece di «riceverla» in una relazione unidirezionale “. 

Se veramente, il Nostro, ci avesse pensato, non avrebbe perorato banalità didattiche  come l’autolezione: cioè, la lezione che il professore dovrebbe preventivamente concordare con lo studente in luogo di quella tradizionale e unidirezionale. Per l’ efficienza formativa basterebbe dunque applicare il principio dei vasi comunicanti: sarebbe sufficiente, cioè, collegare lo smartphone dell’insegnante con quello (spento, non sia mai ! ) dello scolaro per il miracolo dell’apprendimento infuso. Del resto – è il concetto sotteso all’ oltranza progressista – essendo tramontato il vecchio rapporto di gerarchia educativa,  si tratterebbe soltanto di trasferire nozioni da un soggetto ad un altro, al fine di aumentare l’efficienza ( pratica, sic !) del destinatario. La lezione, quindi la Scuola, non serve più. C’è lo smartphone, che sa fare tutto, e lo fa sempre meglio e bene. Espande finanche la mente. Parole ancora più urticanti provennero da  Francesco Merlo il quale insorse  contro “ i cretini intelligenti (“cognitivi”) che ancora si battono contro i telefonini. Tutte le innovazioni hanno seguito la stessa sorte: approvate dalla stragrande maggioranza degli uomini sono state condannate dai cretini cognitivi di tutte le epoche. È successo con il treno, con la penna biro, il cinema e la tv.  L’offesa alla lingua e alla logica non fu data tanto dall’aver conguagliato lo sviluppo  tecnico con quello intellettivo; quanto dall’aver abbinato, in regime di confusione e per mera vanità ossimorica, sia i cretini che gli intelligenti ai cognitivi. Che significa e chi è il cretino cognitivo ?  Cretini intelligenti possiamo esserlo tutti; su tale fisiologico rischio è stato pubblicato addirittura un libro scientifico dal titolo  ‘Quando persone intelligenti hanno idee stupide’. 

Se il riferimento, pur inappropriato, è a chi ritiene la relazione educativa diretta il principio costitutivo dell’istituzione scolastica,  non ci disturba affatto far parte di questa categoria,  cui vanno  iscritti brillanti giornalisti ( Nicholas Carr). E illustri neuroscienziati, come  Manfred Spitzer, autore del celebre testo scientifico intitolato  ‘Demenza digitale. Come la nuova tecnologia ci rende stupidi’, con  cui  ha documentato la nocività del cellulare in classe provandone l’effetto impeditivo della normale assunzione delle competenze linguistico-logico-matematiche da parte degli studenti dai 6 ai 15 anni. Lo studioso sostenne che l’utilizzo, anche a scopi didattici, del congegno  interferiva malevolmente con il rendimento scolastico e  con l’acquisizione delle capacità cognitive di base, fino a pregiudicarli in maniera irreversibile. Valditara  non si lasciò condizionare dalla insana tendenza a trascinare la scuola nella vacua contrapposizione tra apocalittici e integrati, o peggio, tra cretini intelligenti e cretini cognitivi. 


Tanto è vero che, pochi giorni fa, è intervenuta la decisione ministeriale di vietare i cellulari a tutti anche nelle scuole superiori e perfino per finalità di insegnamento. Il ministro ha detto che              « dobbiamo aiutare gli studenti a disintossicarsi». L’espressione, pur di scabro impatto,   è tuttavia  coerente con le ultime  evidenze scientifiche che hanno attestato gli effetti esiziali certi dello  smartphone sulla psiche infantile e adolescenziale. Sebbene con maggior pudore, anche questa volta si è invocata la ineluttabilità del progresso. Per i perplessi a prescindere, l’uso consapevole del digitale dovrebbe diventare la principale materia scolastica. La didattica dovrebbe guardare avanti, imparare le poesie a memoria non risolve il problema e il mutamento tecnologico non va castigato quando c’è una nuova grammatica da studiare. Non si vieta ciò che va compreso (così Aldo Grasso, caustico critico televisivo). 

La conclusione del ragionamento è fallace almeno quanto le sue premesse. Innanzitutto, smartphone, digitale e intelligenza artificiale non sono sovrapponibili. Bandire  l’utilizzo del primo durante l’orario scolastico non implica la rinuncia automatica  all’introduzione curricolare  del secondo e della terza. La esclusione del cellulare dalle aule svolge la fondamentale funzione di evitare - ex ante - interferenze con l’attività formativa, e ostacoli all’ apprendimento. Le anime belle dello smartphone taumaturgo dovrebbero spiegarci a cosa e a chi - docente o discente – possa essere utile il telefonino durante l’orario scolastico.  A nessuno, infatti. 

Men che fatua, quindi insensata, è l’idea di istruire i ragazzi sull’uso cosciente della tecnologia, in quanto – come è noto - la consapevolezza e la competenza di fruizione dei dispositivi e relative applicazioni diminuiscono con l’incremento anagrafico. Ma soprattutto perché l’utilizzo consapevole del device presuppone un grado di  capacità critica che, prima dei diciotto anni,  è inesistente e inesigibile.

Con buona pace degli integrati, la commendevole quanto ingenua finalità di mitridatizzare  i bambini e gli adolescenti contro i pericoli (peraltro, di natura e provenienza meramente umane) del cellulare, del digitale e dell’IA si persegue – invece e paradossalmente – proprio  con l’imparare i versi a memoria e con lo studiare la grammatica  della propria lingua. Come minimo. 

Nel nostro caso, siamo di fronte a un divieto proattivo. E salutare. 


AltaMarea - Giorgio Galli - Racconti


La vita del borgo

Dal mio punto di osservazione, osservo. È il privilegio di non avere una vita. Liberarsi dall’ingombro dell’io, trasformarsi in puro punto di vista. Gli aerei che volano. Le macchine. Negozi aperti per nessuno. Le parole degli uccelli che cadono giù dai rami. Il rimbombo della musica di un baraccone. Camion che scaricano merci -per chi? Ascolto uno scampanìo di bottiglie e non vedo i bevitori. Passano giovani come fantasmi scampati a un’inondazione. Sembra che l’umidità dell’aria li abbia sommersi. È finito l’impero romano. È caduto, i messi non sono ancora arrivati, ma ne parlano gli uccelli, gli ideogrammi funebri degli uccelli che cadono giù dai rami. La rivoluzione francese deve ancora arrivare, la croce sulle chiese è la croce di Ildebrando di Soana, San Francesco e Rousseau devono ancora venire a trasformare gli schiavi in uomini liberi. Il borgo vivrebbe anche senza di noi. Le foglie si accartoccerebbero e diventerebbero rosse, i bambù del ristorante di pesce -aperto per chi?- diventerebbero decrepiti e poi diventerebbero morti. I ristoranti cafoni, l’insegna che lampeggia APERTO, i biliardini, resterebbero tutti come fossili dopo un’inondazione. Gli uccelli manderebbero i loro segni a un vento libero di parole. Passerà la vita del borgo, resterà il borgo.

*

Ci regaliamo il frutto delle notti, gli anni vissuti senza di noi. 

Un incendio, una morte, una rinascita, un rifondare l’uno nell’altra le nostre città. Il tuo corpo è una storia d’amore. Porta i segni di tutto il mio amore. Modellato con mani da vasaio, con pazienza creato, scolpito. 

Sei intensa come l’odore dei tropici. Sei ambra, lava etnea, gorgoglio di risacca e profumo di menta. Sei monumento di marmo e donna viva. La tua voce è voce di velluto, canto della notte. Hai gli occhi scuri d’Andalusia. Ogni tua sfaccettatura è una persona. Un mondo intero di porti, di case, brulicante di esseri umani. Sei sempre una e sempre nuova, come le onde sulla superficie del mare. E tutto questo nelle mie mani che ti ricreano. Che custodiscono dolore e splendore. Che si donano mentre attingono da te. 

Hai un desiderio selvaggio di riprenderti la vita che ti è stata tolta. Riprendiamocela, io ti aiuto a riprenderla. Mia come il palmo delle mie mani, tuo come il colore dei tuoi occhi, riprendiamo possesso del mondo. Sei vorace di tutto e tutto annienti. Cadono affascinate anche le pietre. Ma non cado io. È più forte la mia passione e ti vince, e tu ami essere vinta. Amo la tua arroganza, il viso e il portamento alteri e gelidi, la rabbia che fa franare le montagne, la troppa forza che cerca sempre nuove passioni su cui sfogarsi. Amo quel corpo sodo, caldo come il sole, le gambe d’avorio e acciaio, la plasticità aggressiva del portamento. Amo l’incarnato di terra, il Mediterraneo dei sensi. Le fiocinate della tua tenerezza, la tua raffinatezza di nata povera. Sei di pane duro. Quando arrivi ogni cosa è al suo posto, ognuna ha il profumo che la individua. Ed io sono intrecciato a te come la vite al suo tralcio. Siamo un’orchestra, un coro: innalziamo alla vita un’unica musica. 

Io mi arrampico in te come linfa che scorre nell’albero, dalle radici alla punta dei rami. Ti circolo nelle vene e ti rigenero. Ti sradico, ti fulmino, ti tolgo i tuoi tesori per mostrarteli. Non alzare muri, li abbatto. Non resistermi, ti vinco. Non temermi perché la tua paura è nulla in confronto al mio amore. Io ti inchiodo a me, serro le tue mani alle mie e con gli occhi piantati nei tuoi occhi ti anniento e ti ricreo nella passione. Appesa alla stella più alta tu rinasci, rivivi. Con me. 

Ma le parole cessano. L’amore non è fatto di parole. L’amore ha un corpo. E il cuore, quando è caldo, non parla. 

Solo una cosa rimane. Tu. Noi.

*

Vita

Ho sentito la voglia di vivere nella vongola che, quando cercavo di aprirla, serrava le valve in un estremo tentativo di non farsi uccidere.

La gallina aveva gli occhi di spavento quando la contadina pigliò le forbici.

E il bambino, alla morte del nonno, sapeva che qualcosa di irreparabile era accaduto.

Qualunque cosa che vive possiede una sua scienza della morte.





Nota biografica

Giorgio Galli è nato a Pescara nel 1980 e si è laureato a Siena. Vive a Roma dove ha gestito una libreria indipendente. Ha pubblicato La parte muta del canto (Joker, 2016), Le morti felici (Il Canneto, 2018), Il matto di Leningrado (Gattomerlino, 2021) e Un quoziente di gioia (Fve, 2023). Per RCS libri ha scritto le biografie di Slobodan Milošević, Douglas McArthur e Tito nella collana “I signori della guerra”, La scomparsa di Mauro De Mauro nella collana “Grandi misteri d’Italia” e La conferenza di Jalta nella collana “Giorni che hanno fatto la storia”.  Scrive su “Morel, voci dall’isola”, “Niederngasse”, “Neobar” e “Il Detonatore”. Gestisce il blog letterario “La lanterna del pescatore”.