L'ERRORE


Non mi era mai capitato.
Ma quello che non capita mai, credo, non esista.
Prima o poi succede quello che non ti aspetti.
Scorre, davanti ai miei occhi, una pagina di vita privata e pubblica, dai contorni sfocati. Il riflesso della mia immagine nel televisore mi sorprende. Ero intenta a scrivere un articolo ma qualcosa mi ha fermato. Non digito più neanche una parola. Il tema che avevo in mente si è disintegrato nell’intervista che sta andando in onda. Ho le mani che fremono sui tasti del portatile, ma il cervello non da nessun input. Di fronte a quella pagina bianca, dove lampeggia l’icona del mouse alla fine di una parola troncata,  insolitamente, resto indifferente. La mia attenzione è una pietra nella fionda degli occhi. La molla si tende, si inarca. Il colpo parte. Si frantuma su quel programma, sintonizzato per caso. La percezione di un problema modifica uno stato. Si accende la curiosità. Vorrei capire. Comprendere cosa ha portato quell’uomo fino a quel punto. Fino a costruire delle ali di ghiaccio davanti ad un sole fondente. Forse è la stecca che capita ad un concerto. Il rigore tirato alto sulla traversa. Il tuffo carpiato con l’ingresso in acqua sbagliato. Una partenza anticipata, l'ingresso nei box in accelerazione. La scalata verso la vetta più alta e l’aggancio ad una roccia fragile, precipitare. Cose che succedono quando si commette l’errore. Quando questo semplice termine cancella la gloria. Quando la nota del telecronista diventa dolente. Quando l’angoscia diventa un urlo di dolore. E non ci sarà nessuno in grado di dire che “non è niente, non fa niente.” Quando si comprende di aver sbagliato. Quando l’imprecisione è palese, drammatica, non esiste chi addolcisca la pillola. Non esiste carezza per calmare i nervi tesi. Non esiste unguento per suppurare la ferita aperta. Quando si sbaglia il primo censore diventa la coscienza. La tua coscienza. Sei tu. Tu che ti dai ogni colpa. Tu che accetti l’agonia interiore ma non accetti la conseguenza esterna. L’umiliazione del pubblico sfrenato, ebbro di cattiveria. È quel frammento infinitesimale di te, quel piccolo strappo alla normalità, quello che nel dizionario può essere chiamato con i termini più diversi, colpa, peccato, difetto, disonore, macchia, vergogna, demerito, onta, che per noi uomini diventa una persecuzione. Una catena senza lucchetto. Un boa che ti avvolge la gola sino a farti smettere di respirare. Lo sa bene chi ha sbagliato un rigore in una finale importante, chi ha perso un titolo mondiale quando era più difficile sbagliare che fare la cosa giusta. Ma quando non si vuole fare i conti con questa eventualità. Quando non si vuole mettere il piede in fallo. Quando non si vuol commettere l’errore di cadere nella normalità di un mondo in cui essere umano sembra una banalità, è allora che si commette l’errore più grande. Quello per cui la pena diventa non commisurata, ma necessariamente sproporzionata. Se non si accetta di essere quel che si è. Se si vuole fagocitare il dna e la sua genetica debolezza per trasformarlo in reperto bionico, è allora che l’uomo si trasforma in qualcosa di spietato. Un essere insensibile alle regole ed alla morale. Un unico obiettivo: vincere. Per essere sempre e comunque il più forte. La volontà di essere una spanna sopra gli altri. La necessità di dimostrare di valere più degli altri. Forse è questo che spinge uno sportivo, un campione a drogarsi. Ad assumere sostanze dopanti per afferrare il mondo e tenerlo per la gola. Ma quella che avevo davanti era un’immagine diversa. C'era qualcosa che mi portava a guardarlo con commiserazione. Non vedevo il campione ma vedevo la sua paura. Quella più grande, quella di essere uno dei tanti di passaggio. Uno dei tanti che viene al mondo senza averlo chiesto, che trascorre una vita anonima, fino a quando muore nella più totale indifferenza. Forse è questo quello che spinge a superare il limite del lecito. Del logico. Del si può fare. Il vuoto nelle sue parole era quasi assordante. Rispondeva si, come un automa. La giornalista incalzava e ripeteva con incidente saccenza, sempre la stessa frase, o meglio rigirava lo stesso concetto già chiaro a tutti. Ha mai preso sostanze dopanti? Si. Ha mai usato sostanze dopanti per vincere le gare? Si. Ha mai usato sostanze dopanti per vincere il Tour de France? Si. Ed in questo girare, rigirare, che si apriva, sino a risucchiarlo, il maleficio del doping. Lo sguardo perso, davanti ad una telecamera vorace, mentre ogni secondo, ogni minuto, nel suo scorrere, ingrandiva quel labirinto ed i piccoli caratteri di quelle piccole parole. Parole che accennava come briciole al confronto della colpa: tre si. Un carcerato libero dalle sbarre ma agli arresti domiciliari nella sua coscienza, ecco quello che mi è sembrato.

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