Luigi Anzalone: gli enigmi dell'anima nella lotta tra Eros e Thanatos ne “Una storia senza fine”

Luigi Anzalone

“Le ombre di questa calda sera d’agosto, che lente  scendono sui nostri monti per giungere a valle come prime tenebre, mentre il sole man mano s’incendia nell’ultimo abbagliante e cromaticamente magico orizzonte,  per poi inabissarsi nel golfo di Napoli, che gli fa, la notte,  da amante marina; queste ombre, dicevo, ci aiutano, soccorrevoli,  in questo luogo del sacro –  dove abita Dio e molto si prega – a raccoglierci vieppiù nell’elemento del pensiero per, con piacere e impegno della mente,  parlare  tra noi di una cosa bella, di molto pregevole e rilucente bellezza e di alto e armonioso  significato e costrutto,  ovvero de “La storia senza fine”, il più recente libro  di Emanuela Sica.  Si tratta di un parlare tra noi che è  non solo quello del dire di chi parla, ma anche del silenzioso domandare di chi ascolta con attenzione, che è, dice Malebranche, “la preghiera dell’anima”. 

Mi fa piacere – prim’ancora di corrermi l’obbligo – ringraziare di vero cuore  la Signora avvocato  Emanuela Sica di avermi invitato a parlare di questo suo ultimo  romanzo. Della “Storia senza fine”, infatti, bisogna subito dire che si tratta di un aureo volume,  piccolo di mole ma ricco di poesia e pensiero,  segnato in modo originale, felice e attraente da un’aura gotica, onirica, straniante. Esso si compone, nelle sue circa 130 pagine, di capitoli in prosa, conclusi da una poesia. Sicché, nell’alternarsi di prosa e versi, si realizza un’incalzante, elegante e avvincente  narrazione  in prosa poetante e  un discorso in poesia, nel quale l’intuizione lirica, potente, felice, eppure a tratti non brevi tormentata, esprime e fonde, con  creatività straordinaria e irripetibile,  immagini e figure, sentimenti e concetti. Si tratta, dirò ancora, di un libro enigmatico, per più versi simile  una  sciarada ben congegnata in cui non è difficile perdersi, come nell’intrico di stretti e impervi sentieri nel fitto di un bosco  che, incrociandosi e unendosi, sviano il viandante, come gli “Holzwege”, i sentieri interrotti  heideggeriani, e lo allontano dalla sua meta. Che è il rivelarsi  o darsi, almeno in un certo modo, del significato del libro e di ciò che a noi dice di noi stessi.  O, non invece, questi sentieri svianti indirizzano e  avvicinano il lettore che va verso il libro e la sua cifra nascosta? Non saprei. Direbbe Platone: “è ignoto al tutti fuorché al  Dio”.     

Luigi Anzalone - Emanuela Sica

Ho ascoltato  con vivo interesse chi mi ha preceduto nel parlare di questo testo. Ringrazio, perciò, i relatori per le perspicue analisi  che hanno caratterizzato i loro interventi. Ora, forse  azzardando  date le mie deboli energie mentali e modeste competenze letterarie per esporre  esporre il mio punto di vista sul libro, a cui ho già fatto cenno, mi si consenta prima qualche riferimento alla personalità e all’opera complessiva dell’Autrice. Di Emanuela Sica credo si debba cercare di dire l’essenza unica e rara dicendo che è una Donna Splendente. Come intellettuale, scrittrice e poetessa è indubbiamente la personalità  più significativa  ed eminente della nostra provincia e tra le più importanti delle nostra Regione e del Mezzogiorno. I prestigiosi riconoscimenti e premi, che sempre più numerosi le vengono conferiti, ne segnalano la statura non comune e suonano come autorevole  conferma di quel che dico.  Non è qui il luogo di rappresentare, sia pure in breve, in che cosa consiste l’eccellente valore del suo scrivere e poeticamente dire, riservandoci comunque di farlo intendere in qualche modo non secondario proprio parlando della “Storia senza fine”. Come intellettuale impegnata sul fronte cultural-politico del femminismo democratico e progressista a favore dell’emancipazione delle donne in modo compiuto e autentico e per una società libera, giusta, interetnica e interculturale, l’avvocato Sica si è imposta sempre più in modo sostanziale e forte.  Vorrei, al riguardo, richiamare l’attenzione sul volume collettaneo “Rosso”, un’Antologia di scritti sulla violenza di genere, in cui spicca in modo netto  e convincente il suo lungo saggio storico-filosofico-politico, un vero e proprio splendido libro a sé,  con il quale argomenta in modo scientifico e appassionato, documentato e logicamente stringente circa la necessità di superare definitivamente l’androcrazia e l’androcentrismo  maschilista  e patriarcale, che ha duramente dominato incontrastato  per millenni in Occidente, e non solo, e che è ben lungi dall’essere stato debellato e superato.  

Venendo a questo suo libro, la sua particolare importanza mi induce a richiamare il criterio ermeneutico cui mi ispiro. A mio avviso, tenendo conto di quanto Gadamer afferma in “Verità e metodo”, noi  interpretiamo, cioè capiamo qualcosa di un libro, che vale la pena leggere e capire, come lo è in massimo grado per “La  Storia senza fine”, nella misura in cui  esso, simultaneamente, c’interpreta. Cioè dice di sé dicendo nel contempo di noi qualcosa di essenziale. Solo così, come invita a fare Heidegger, possiamo portare alla luce il non-detto del dire del poeta o dello scrittore in quanto senso autentico e profondo del suo dire. Se volete, possiamo pure esprimere il rapporto che si crea tra lettore e libro, interpretante-interpretato, come un continuo scambio di ruoli e di parti. Pensate a una porta girevole dove, nel continuo movimento, la parte interna diventa esterna e viceversa. Mutuo l’immagine e l’esempio dal medico-filosofo Victor von Weizäcker, precisamente  dal modo cioè in cui cerca di rendere accessibile la sua concezione al “Gestaltkreis (circolo della forma, letteralmente) da intendere - come ha perspicuamente fatto Marilena Anzalone, docente di Filosofia morale all’Università della Basilicata - come qualcosa che connota nel profondo il rapporto io-mondo.   

Lo confesso, la lettura de “La storia senza fine” ha operato in  me  una sorta di “Verfremdung”, importante nella mia esperienza culturale ed esistenziale.  Mi spiego. Noi viviamo in una società il cui tratto negativamente, anzi drammaticamente caratterizzante e unificante è “Entfremdung”, l’alienazione. La nostra è una società alienata, in quanto in essa è andata persa l’umanità dell’uomo, il  suo  valore soggettivo e spirituale: in essa  tutto è cosificato, mercificato, ridotto in termini di danaro. Viviamo nel tempo del trionfo delle merci e del valore di scambio come valore unico, esclusivo, assoluto, come orizzonte di senso della vita umana. Basti dire che, nel trionfo del consumismo, reso possibile dalla mondialità darwinistica dei mercati, ogni essere  umano o quasi ritiene che il suo valore consista e si esprima nelle merci che possiede e lui stesso trova giusto e naturale che il suo valore sia risolto  nella valuta con cui il mercato valuta e retribuisce il suo lavoro. Va senza dire che l’umanità, essendosi persa nell’altro da sé, non è consapevole della sua cosificazione ed estraneazione. Accade così che,  talvolta, singoli uomini  o gruppi umani  si rendano conto della loro condizione di perdita dalla loro umanità solo grazie a un fatto, importante o secondario, che ha un effetto affatto particolare e, comunque positivo, anche se non privo talvolta di aspetti dolorosi. Quel fatto, piccolo o grande, opera come una scossa, un risveglio improvviso da un sonno della coscienza e ci riporta a noi stessi, alla nostra inalienabile spiritualità, soggettività, coscienza. E’ questo processo involontario, per lo più accidentale, ciò in cui consiste la “Verfremdung” che - adoperata da Shakespeare e da Brecht  come tecnica teatrale - ritorna in Ernst Bloch come concezione filosofica, per dire che in Dio gli uomini non si perdono solo (alienazione), come vogliono Feuerbach e Marx,  ma si ritrovano (Verfremdung): il valore infinito di Dio li riporta alla loro essenza ancora incognita,   che è la tensione utopica verso il  meglio. 

“La storia senza fine” – che è stata pubblicata grazie a Giosuè D’Avino, consorte dell’Autrice, la quale, dopo averla scritta nel 2010, se n’era come scordata, affidandola,  per dirla con Marx, “alla critica roditrice dei topi” – ha operato in me come “Verfremdung” nel senso di riportarmi, nel mio lavoro di ricerca e nel mio mestiere di vivere, al compito, sentito come un dovere,  di uno scandaglio ancora più profondo dei moti, delle forze, delle pulsioni e degli impulsi, delle tendenze negative e positive che operano nel profondo della coscienza, nelle sue  ascose regioni notturne e oniriche, tanto  prepotenti e decidenti nella vita dei singoli e nella storia dell’umanità. Che sono il contenuto vero, affascinante e inquietante a un tempo, del libro di Emanala Sica.   

A me appare evidente, non credo di sbagliare, che Emanuela, seguendo l’”Edisamen” che ispira Eraclito  (ho indagato me stesso), abbia, in forma dissimulata “sub specie fabulae”, dato espressione a una autobiografia  dell’anima in cui si fondono, si contrappongono si confrontano, si identificano la sua psiche e quella della “leopardiana “umana compagnia”. Per giungere a quel punto arcano e fondativo  della coincidenza, per dirla con Heidegger, del livello esistentivo  (individuale) ed esistenziale (universale) dell’esserci dell’uomo, cioè di abitare il mondo e di essere-con-altri.  In un confronto e un dialogo incalzanti e serrati, pur se sottintesi con il freudismo,  Grazia Deledda, Virginia Woolf e Kafka, le cui atmosfere e  il cui logos sembrano rivivere, trasfigurati e identici, nelle pagine della “Storia senza fine”,  mai come in questo romanzo la sostanza psico-spirituale dell’Autrice si rivela intrisa della  cupa profondità del romanticismo tedesco e insieme capace di  esprimere l’impeto e la forza dell’Amore, di una Vita Nuova, di un’umanità riconciliata con la sua origine edenica.

Colpisce, come se colpisce se si sa leggere, il momento tragicamente centrale del romanzo, rappresentato dalla peste, “la devastante epidemia sanguinosa  e senza alcuna possibilità di salvezza”, che sopraggiunge  verso la fine di un imprecisato autunno e uccide prima gli animali, poi i bambini, infine gli abitanti tutti del Villaggio misterioso, che simboleggia l’umanità intiera. Come dire che con mente  meditante e presaga Emanuela Sica, dieci anni prima che si scatenasse la pandemia, scriveva che lo sfruttamento bestiale della natura  e del lavoro umano, che si cela dietro il luccichio e l’edonismo della società merceologico-consumistica, porta al disastro  e alla morte, alla fine della civiltà umana. 

All’apparenza, la  trama del romanzo appare chiara e lineare, ma nella sostanza è  intricata e sfuggente. Si svolge in un  tempo senza tempo, in un paesaggio invernale e inospitale  dove Asmarath una giovane donna di bell’aspetto subisce la violenza carnale (alla quale però non è estranea una qualche sua inconfessata adesione) di un’entità maschile, che è la vera propria deità del Male. Da quella violenza vengono alla luce due  gemelli: una bella bambina, in perfetta salute e un bambino  pallido e smunto. Asmarath chiama la bambina Agape, ad esprimerne l’essenza bella e amorosa, e il bambino Teleyte, dove è evidente la reminescenza del greco “Thnesco”. Per un fatale accidente,  la madre soffoca il bimbo,  che muore; così che  lo depone in una cesta e lo affida alle acque di un gelido fiume infernale.  Ma giunto alla sponda opposta,  il padre lo resuscita votandolo a portare il male nel mondo, al punto di affidargli la missione atroce di uccidere sua sorella. Ma la legge del sangue, quella che Hegel chiama nella “Fenomenologia dello spirito”, commentando l’“Antigone” di Sofocle, il “diritto delle ombre”, impedisce che Teleute compia l’infame assassinio, riconciliandolo con la sorella ritrovata. La quale, innamoratosi di un pastore, Rastan, simbolo del popolo che subisce pene e morte di cui è incolpevole, rinunzia alla sua natura di angelo del Bene per diventare donna mortale tra i mortali, condividerne gioie e dolori, vivere la vita insieme all’uomo che perdutamente che l’ama. Non si stenta a comprendere che, con forti accenti manichei, Sica ci rappresenta, in forma mitologicamente suggestiva e tenebrosa, l’eterna lotta tra il Bene e il Male. Avvertendo alla fine del romanzo  che, anche quando come nella sua favola, il bene vince, il male non è vinto. Ma, in realtà, ad agire sulla scena del mondo umano in modalità dicotomiche e antinomiche, altrimenti non si capirebbe donde il Male e il Bene provengono, sono anche altre forze e potenze, ad esse strettamente connesse, forze largamente inconsce, insieme contrapposte ma talvolta vicine. Esse sono, detto in breve, l’Amore e l’Odio, la Vita e la Morte. Se vogliamo, il freudiano Eros e Thanatos. Eccezionalmente penetrante e sorprendente è la capacità della Sica di cogliere, scandagliandoli, gli inferi dell’anima umana, il complesso, torbido impasto di bene e male, il loro fondersi e opporsi nel “guazzabuglio del cuore umano”, come avrebbe detto Manzoni. Così che le sue pagine, sia in prosa smagliante che in poesia ammaliante, ci pongono di fronte, come fosse uno specchio in cui guardarci per quel che siamo effettivamente,  agli enigmi, le ambiguità, le pulsioni inconsce e notturne dell’anima umana - insomma, alla natura cangiante del nostro sentire profondo. La qualcosa la si comprende, se si comprende che tra i personaggi  del libro il rapporto è tale da essere tramato in base al meccanismo del “Doppio”. Per cui  Agape è Asmarath, che ha perso quanto di torbido e quasi incestuoso c’è nella sua indole e ha assunto le sembianze di una donna che vive un amore felice con Rastan. Nel quale l’elemento maschile, da personificazione del Male, liberandosi della natura demonica e violenta, si è umanizzato in modo positivo e buono. Alla fine,  ciò che balza in stupenda evidenza è la concezione dell’amore di Emanuela Sica, espressa in pagine di palpitante, sublime  poesia,  pur cogliendone che vi è di più notturno, libidico e ambiguo. L’amore,  l’amore vero, autentico, felice o infelice, non è né carnale né spirituale, ma il loro meraviglioso fondersi e identificarsi, così da dare non solo vita all’umanità ma da elevarsi ad espressioni sempre più nobili, geniali e lucenti.  

Non sorprende quindi  che la Sica sia capace – ma tante sarebbero le belle citazioni da fare -  di versi come questi: “Dalla dolcezza legati / nel rovente simposio d’agosto/ tra spighe di campo e lucciole vaganti/ fino a diventare silenziose stelle/ spettatrici nel cuore della notte/ dell’appartenersi”. L’amore, in Emanuela Sica, come forza vitale, ardente, sensuale e forte, palpitante, generosa, spirituale, ha una grandezza, una tensione utopica, che, pur non negandosi ai dettami della ragione, è la felicissima inerme, arma propria della vita, del bene, del suo trionfare e saper resistere al male e all’odio e vincere la stessa morte, per quanto è concesso ai mortali.  E’ questa tensione, direi, utopica e redentiva dell’amore che  fa dire a Emanuela iniziando il romanzo: “Nel sentiero del cuore/ pianterò il seme dell’amore”. Ed ecco perché  noi possiamo,  senza enfasi dire, che, seguendo Eraclito, Emanuela Sica vaticina “Per i vaganti di notte, per le Menadi, per i posseduti da Dioniso, per gli iniziati”.


 

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