Non ho mai finito. Monia Gaita

Monia Gaita è nata a Imola ma vive da sempre a Montefredane, paese d'origine in provincia di Avellino. Giornalista e critica letteraria, ha all'attivo le seguenti pubblicazioni: Rimandi (Montedit, 2000), Ferroluna (Montedit, 2002) Chiave di volta (Montedit, 2003), Puntasecca (Istituto Italiano Cultura Napoli, 2006), Falsomagro (Editore Guida, 2008), Moniaspina (L'Arca Felice, 2010), Madre terra (Passigli, 2015) - Premio di letteratura allo Spoleto Art Festival 2016. Diverse le antologie che si sono occupate della sua poesia. Collabora con il "Quotidiano del Sud" e a importanti riviste web e cartacee. E' direttrice di Delta 3 Edizioni. Porta avanti nella sua Montefredane, con la Pro Loco che presiede, il Premio di Cultura "Oreste Giordano", volto a valorizzare eminenti personalità del mondo giornalistico, della poesia, della scrittura, dell'arte e della scienza. 

"Non ho mai finito" è il suo ultimo lavoro poetico, pubblicato per i tipi di La vita felice ne "Le voci Italiane" - direzione editoriale di "Poesia italiana contemporanea" Diana Battaglia. 

Nell'aletta interna, posta sulla copertina, si legge: "Già il titolo, Non ho mai finito, stabilisce il contesto di veritò in cui si muove la parola poetica di Monia Gaita, adibita a percepire, cogliere e analizzare realtà materiale e trama interiore. Uno scavo che diventa fede e obbedienza consapevole dell'irrisolto mistero sul quale il dire, inesauribilmente, lievita e si interroga. Un linguaggio lirico alto che crea con accostamenti ibridi, anche attinti ad un lessico tecniscitico e comune, una genealogia solida di originalità e di forza. Se la poesia deve sollecitare il pensiero e spalancare i varchi, questi versi non affacciano alcuna prossimità all'ovvio e al futile. Il discorso si fa detentore di una potente agibilità comunicativa, incorporata in un bagaglio di significanza che il lettore potrà facilmente riconoscere." 
*

Le preziose gemme poetiche, raccolte in quest'ultimo lavoro di Monia Gaita, sono divise per tematiche: Il ciclo del sentire; Confluenze; A colloquio con i luoghi. Ognuna di queste rappresenta, come in una mappa geografica emozionale, le fasi di un viaggio, in una declinazione, potrei azzardare, tutta al femminile di una moderna e travolgente Odissea. 

Qui l'eroina è una donna che non resta ad attendere salvezza, a filare la tela, ma che si affaccia sul precipizio del cuore "spento e diroccato" per provare a dimenticare, a ricordare, in un viavai, sempre fecondo e profondo, di tesi ed antitesi, l'assenza e la presenza dell'amato che "dilata e infiamma i piccoli vasi intorno alla ferita". 
L'autrice si muove, nel "Ciclo del sentire" con estrema delicatezza, quasi area sulle rovine del nulla, non trascurando, però, di legarsi sempre, anima e corpo, alla natura che la circonda e che la vivifica come nettare di sopravvivenza.
E anche quando "la grandine" scuote e affolla il suo "selciato" lei riesce lo stesso a contenere, nella sua "tempra forte,  un equilibrio di "squilibrio" capace di salvarla, sempre.
Nel gioco delle circostanze, nelle stanze che apre e chiude senza mai abbandonarle, si muove con la velocità di un levriero per sfuggire al nibbio che aleggia, crudelmente, nelle vivide immagini del suo "santuario dell'uguale". 
Eppure, come "acrobata di forza" sottovoce e stanca, ancora si ferisce davanti alle omissioni di parole non pronunciate, carsiche e spigolose, che restano, severe, in "groppa a una macchietto di domande". Qui capita anche di inerpicarsi nel ventre di un terremoto, ove la stessa si perde, alla ricerca di una rassicurazione che vuole essere una goccia d'assenzio, necessitante alla virtù per sorreggersi nel deserto della fame "fuori dai malintesi".

A seguire, nelle "Confluenze" parla il "polso della coscienza" che segue le tracce dei ricordi e della memoria "come un cieco" mentre la "terra si sgretola" e lei diventa vulnerabile, vinta e condannata a cibarsi degli avanzi. Riemerge, per questo, la fatica di "pettinare tutti i giorni la speranza" come un mantra che stipa e conserva, senza farne parola con nessuno, passato, presente e futuro. Mai nessuno riscirà ad accomodarsi in quell'abitato emotivo per  carpirne la verità. Le urla sono ben stipate nella dispensa degli affanni e lei le conserva nei barattoli ricoperti da quella polevere che serve "a pedinare il buio, sfiancata alla linea del traguardo".
Accade quindi di scoprire che il "cuore è una brughiera inutile coperta dalla neve" e che quando la "tristezza sfodera la spada" l'innocenza perduta diventa un rimpianto da cui non si riesce ad uscire indenni. Ma certi "ricordi assomigliano al legno" e arrivano a pretendere resistenze e combattimenti a chi vorrebbe arrendersi e prova a sopravvivere a se stessa. 

Infine, nei "Colloqui coi luoghi", "scivola dal cavallo delle nuvole" per slegare il passato dal presente, e "scovare sotto le foglie floride" quel nome che echeggia, nel quotidiano e nel sentiero delle evanescenze, concreto, pulsante, abitante certo, senza la lama dell'utopia, nella curva dei pensieri migliori che fanno pane della mancanza e lasciano i feriti sulle strade. 
"Anche il tuo corpo è da salvare" lo dice al ventricolo del suo locus natio "Montefredane", nella terra della sua genesi e di quella rapace lotta contro i guizzi delle "vampe" che sono fuoco e attrito sulle voglie e reminescenze dell'attesa, dell'ora, mentre da lontano "fischiano i polmoni dalle case" e il "nido dell'infanzia è divorato" nei frammenti aguzzi di un sisma, quello del 1980, che scarnifica e crea "ulcere alle mani."
La sua lirica, vestita in ultimo di carmi luttuosi, ricurva davanti al cadavere del Sud, è quasi rinunciataria rispetto alla speranza della resurrezione, mentre la desolazione è una "bestia" che sembra spingerla "alla deriva". Eppure, nulla di tutto questo accade, la maschera d'argilla cade nella cruciale battaglia della sopravvivenza. La genetica ragione dell'appartenza risale a farsi strada e lo si vede quand'essa parte per posti senza storia. E' proprio nel muoversi verso e lontano che, l'autrice, resta ancorata alla sua Itaca, "all'utero dei campi" con "l'uncino dei rumori sulla pelle".
Una radice fluttuante che si allunga ma non si spezza e, talmente elastica, da tornare sempre all'origine, a quel punto nodale da cui parte il suo complesso peregrinare. 

Gaita resta "fedele ai muri, indistinguibile dal rosmarino e dai papaveri dei campi" per difendere, con le unghie con i tormenti dell'illusione, la "gioia" che pure "muore sulle labbra" ma che pretende di difendere nel "ti amo", insegnamento unico per le "epoche remote" ed esempio fruttifico per le nuove. La sua Odissea è un ritorno costante, spogliato di dubbi, che pur risalgono a corrodere leggermente l'assioma dei suoi pensieri. 
E' un ricongiungersi e allontanarsi, nella morsa del desiderio più carnale e carico di soltizi dove la speranza, pur in difficoltà sulla pazienza, mai s'aarrende e riemerge dagli annegamenti del destino, è una sfinge che si rialza e arde luminosa. Come luminose e ricercate sono le parole che l'autrice ricama nelle sue poesie. 

L'arte del dire è, per Gaita, estetica della parola e purezza del sentimento che le muove. Nessun termine è lasciato al caso, ogni minimo particolare è briciola di pane che serve alla sua fanciullezza per ritrovare l'anelata via di casa e qui, troverà ad attenderla, la maturità. Eppure anche dove la strada "sembra rettilinea" c'è qualcosa in lei che si sgretola per diventare relativa, perchè "dietro ogni" sua scelta "c'è un retroscena" che non si vede.
Resta, comunque, la magia del non detto a rivestire il suo rigoglioso sottobosco. 

E intanto vivere 
nella coscienza mezzo fradicia dei giorni,
le gambe sciolte del non pìù sperare
e al punto in cui la scelta si biforca
-nessuna titubanza-
percorrere una strada.




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