L'anniversario della nascita di Pasquale Stiso offre alla “giusta posterità”, per dirla con Cuoco, l’occasione di colmare una grave lacuna della storia politica e culturale dell’Irpinia e della Sinistra meridionale. Si tratta di riconoscere in essa un posto di prima fila a questo avvocato andrettese, intellettuale colto, raffinato, creativo, dirigente comunista stimato dai suoi compagni di partito e dagli avversari. Né potrebbe essere altrimenti, perché egli visse il lungo e difficile dopoguerra e il boom economico degli anni sessanta, che giunse tardi al Sud e con effetti fatui e brevi, come intelligente, appassionato e impegnato protagonista delle lotte per il riscatto di quelli che gli inglesi chiamano labouring poors (poveri che lavorano), mentre l’emorragia demografica dell'emigrazione desertificava i piccoli, presepiali e montuosi paesi dell’Alta Irpinia e il Sud d’Italia. La sua è un’eredità etico-politica e civil-culturale caratterizzate da uno stile di pensiero moderno, antidogmatico e refrattario ai compromessi deteriori per carrierismo e tornaconto. Il compagno Pasquale Stiso era stimato innanzitutto dai giovani comunisti, da me fra questi. Dei giovani, difendeva, riprendeva e sviluppava le idee più innovative, spesse anticipandole nella forma migliore. Esse possono riassumersi nella ricerca, sulla scorta dei Quaderni dal carcere di Gramsci, di un marxismo vivo, non mummificato. Del Sessantotto, di cui intuì le potenzialità e il carattere di “Primavera dei giovani”, apprezzava la carica libertaria, la forza dirompente della sua ansia di rinnovamento della società, temendone, tuttavia, un tendenziale nichilismo distruttivo.
Non enfatizzo niente nel dire che la notizia improvvisa e inattesa della sua morte ebbe un effetto sconvolgente nel nostro partito, provocando in noi tutti un cocente, profondo dolore. Fu davvero un giorno maledetto quel 26 novembre 1968 quando si tolse la vita rivolgendo in modo mortale un fucile contro il suo cuore. Aveva 55 anni. A tanti anni di distanza, sempre più mi capacito che la causa vera e unica di quel suo estremo gesto fu risparmiare alla sua famiglia le sofferenze che il male incurabile di cui soffriva le avrebbe provocato. E’ stato il professore Federico Biondi. il dirigente comunista di cui Stiso era fraterno amico, a lasciarne il migliore ritratto della personalità morale e politico-culturale nella sua autobiografia politica, Andata e ritorno. Viaggio nel PCI di un militante di provincia, ricordando innanzitutto: “l’angoscia della (sua) famiglia, della moglie Ortensia e delle figlie Rachele e Angela, la più piccola delle due, quest’ultima, che appena allora affacciatesi all’adolescenza, con animo vibrante di tenera passione, scrisse per la foto ricordo la cosa più bella di quelle che allora si seppero dire, come fosse l’ultima poesia del padre, che poi, quasi segnata da un medesimo destino, vinta da un male incurabile, seguì nella tomba, quando era sposa da poco e ancora nel verde degli anni”.
Bello e imponente nell’aspetto, con il viso scolpito nelle asprezze montuose e brulle dell’Alta Irpinia, la fronte costruita per un pensiero riflessivo e calmo, in cui si risolvevano razionalmente le tempeste di un animo romantico e riservato, impetuoso e dolce, il portamento sicuro e signorile, il sorriso cordiale e simpatico, Pasquale, già a vederlo, esprimeva quel singolare fascino delle genti del Sud, somatizzando insieme dolori antichi e volontà di riscatto, abitudine alla rassegnazione e incrollabile, intelligente dignità. Con studi severi, giovanissimo, si laureò in legge, dotandosi di cultura umanistica e politica vasta e organica. Fu poeta ispirato e originale e autore di drammi che attendono ancora una giusta valorizzazione. Nelle sue espressioni poetico-letterarie raccoglieva in un invisibile unicum il suo inconfessato “male di vivere” e la sofferenza antica del mondo contadino. Era un raccogliere nella parola poetica che nascondeva-svelava un grande vagheggiamento, espresso dal farsi storia di quella controstoria (alla Musil, alla Benjamin, alla Bloch) che può dare all’uomo vera felicità e liberare gli sfruttati e i vinti - tra cui i contadini – dalle loro catene per una vita degna del nome.
Amato dalle donne per il suo contagioso sorriso, per la sua maschia prestanza e per la maturità della sua poetica intelligenza, la serietà e la coerenza del suo pensare, dire e agire, il suo senso di rivolta, tradotto in concreti obiettivi di lotta fecero di lui naturalmente il capo di quei contadini, che – dice De Sanctis nella Giovinezza - contavano per i galantuomini meno di un mulo. Dei contadini, degli operai, dei compagni di partito perseguitati non solo in politica ma anche nelle aule di tribunale egli assunse, e fu vincente, la difesa. Perché Pasquale Stiso era un grande avvocato. Dotato di naturale e coltivata eloquenza, se ne serviva per un rigoroso, stringente argomentare, analizzare, dedurre e concludere con padronanza massima di codici e leggi e una filosofica capacità di lumeggiare la ratio delle norme. Non parlo per sentito dire: l’ho visto difendere, mio padre Antonio Anzalone, sindaco di Flumeri, da cui uscì assolto con formula piena.
La fortuna politica di questo grande compagno avvocato, che onorò quam maxime la berlingueriana “questione morale”, si identifica con il decennio tra la metà degli Cinquanta e Sessanta in cui fu il leader comunista dell'Alta Irpinia, distinguendosi come sindaco di Andretta e consigliere provinciale . Purtroppo, in seguito, il PCI irpino non seppe e non volle valorizzarlo. Per paradosso più apparente che reale, gli nuoceva proprio il suo essere una sorta di “intellettuale condensato” di gramsciana memoria; e gli nuocevano di più e le sue posizioni politiche, giammai acriticamente allineate q quelle della Direzione nazionale del PCI. Ad esempio, Stiso – come Biondi, Freda ed altri – visse la Rivoluzione ungherese del 1956 come momento nel quale il PCI doveva, cosa che non fece, imboccare decisamente la “via italiana al socialismo”.
La stella polare del suo pensare ed agire era l’humanum – la libertà, la dignità dell’uomo, l’uguaglianza uomo-donna. Il suo umanismo era la controparte cultural-esistenziale del suo comunismo, illustrato da senso comunitario, uguaglianza, libertà E questo che per quanti lo ebbero caro resta in mente insieme alla sua immagine affabile e bella e alla “la tristezza che ebbe la sua coraggiosa allegria”.