18 SETTEMBRE




"Furono le mosche", con un ronzio assordante, un richiamo alle armi, a far capire quello che stava succedendo.
Una ricerca di alleanza che si muoveva sulle note di un odore nauseante. Mosche enormi e nere, si spostavano, come in preda a movimenti isterici, in ogni direzione. Per alcuni versi sembrava quasi una danza per attirare l’attenzione di quelle che non erano ancora accorse al banchetto. Per altri veri era tipo un codice morse. A prestare un minimo di attenzione sembrava quasi di sentire le parole: “accorrete oggi si mangia in abbondanza”.
Eppure l’attenzione era ipnoticamente diretta su altre cose. Cose frammentate, in pezzi grandi e piccoli, sparse come stracci sul terreno arso dal sole e pressato dai carichi dei cingolati.
Il ronzio delle mosche era un sottofondo pieno di agonia, un suono pestilenziale che si mischiava al silenzio reso cieco dall’odore pungente della polvere da sparo. Quel 18 settembre 1982, sciami di mosche, grandi quando lembi di terra, si muovevano come pattuglie armate pronte a finire quello che avevano iniziato i miliziani. Si erano conquistate il primato sui vivi (ancora per pochi secondi) e sui morti (sul colpo). La maggioranza di loro era così inebriata dall’odore accattivante, della carne appena intaccata dai primi grumi di sangue, che non riusciva a fare differenza tra vivi e morti. Le mosche, assuefatte dall’estasi di quel pranzo luculliano inaspettato, sbattevano e picchiettavano le loro zampette, fradice di sangue maleodorante, anche sulle facce dei giornalisti.
Quelli che, per primi, erano entrati nel villaggio dopo la mattanza. Gli unici vivi che vagavano, increduli, in uno scenario tanto suggestivo e macabro da sembrare finto, quasi si trattasse di un colossal Hollywoodiano. Invece era tutto vero, e si trattava di vero dolore, vera morte, vero sterminio. Le strade erano ricoperte da cumuli di detriti e corpi senza vita. Brandelli di pelle e filamenti di sangue si muovevano nei vortici di polvere che, ancora alta, si staccava da terra, spinta da piccole folate di vento, come un fantasma pronto a risorgere.
Camminavano, filmavano, appuntavano sui taccuini e si fermavano giusto il tempo di vomitare, poi riprendevano il loro reportage di terrore coprendosi la bocca con dei fazzoletti, per evitare di ingoiare le miriadi di mosche che li assillavano. Nelle case si erano trovati di fronte a scenari terrificanti. Donne stese per terra con le gonne sollevate fino alla vita, le gambe spalancate, in molti casi spezzate per la violenza subita. Bambini con la gola squarciata. File di ragazzi ai quali avevano sparato alle spalle dopo averli allineati lungo un muro. Neonati anneriti, uccisi ventiquattro ore prima, già in stato di decomposizione. Corpi gettati sui cumuli di rifiuti accanto alle scatolette delle razioni dell'esercito americano, alle attrezzature mediche israeliane, alle bottiglie di liquore vuote. In altri angoli della strada, cumuli di cadaveri riversi. Giovani con gli occhi aperti, braccia e gambe aggrovigliate nell'agonia della morte. A tutti avevano sparato a bruciapelo, alla guancia. Dall'altro lato della strada principale, risalendo un sentiero coperto di macerie, corpi di donne (di mezza età) e parecchi bambini. Tra tutte una era distesa sulla schiena. Sotto il vestito strappato faceva capolino la testa di una bambina che pareva imbronciata, dai capelli corti e ricci, nero ebano. Sembrava fissarli con nervoso stupore ma era morta. Più avanti, un'altra bambina, non più di tre anni, con il vestitino bianco macchiato di sangue e polvere, sembrava una bambola di pezza gettata tra le macerie. La parte posteriore della testa era saltata. Le avevano sparato al cervello. Un’altra delle donne stringeva a sé un minuscolo neonato. La pallottola conficcata nel petto aveva ucciso anche il bambino. Le avevano squarciato la pancia in lungo e in largo, forse per uccidere un altro bambino non ancora nato. Negli occhi spalancati aveva il terrore. Occhi pietrificati da quella morte orribile. Poi come sacchi, davanti a un basso muro di pietra, tutti allineati, vi erano giovani uomini e ragazzi, stesi a faccia in giù. Gli avevano sparato alla schiena mentre erano appoggiati al muro. Avevano tutti la stessa cicatrice sul lato sinistro del collo: marchiati. Un taglio sulla gola significava che erano terroristi da giustiziare immediatamente. Nelle casupole di Shatila, quando i miliziani erano entrati dalla porta, le famiglie si erano rifugiate nelle camere da letto ed erano ancora tutti lì, accasciati sui materassi, spinti sotto le sedie, scaraventati su pentole vecchie e bucate. Molte donne denudate, violentate, ed i corpi gettati su quelli dei loro mariti o fratelli, tutti trucidati. Ed ancora tante e tante immagini come queste, scene raccapriccianti, oltre ogni logica ed immaginazione.
Eppure oggi, a distanza di trentatre anni, sembra che siano solo le mosche a tramandare la memoria di questo crimine contro l’umanità.



(Liberamente ispirato a “Ce lo dissero le mosche” di Robert Fisk - uno dei primi giornalisti che raccontò il massacro di Sabra e Shatila - 18 settembre 1982).


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