giovedì 4 dicembre 2025

BiblioIlde: Capolavoro d'amore - Ruggero Cappuccio

Di Ilde Rampino

Un susseguirsi di misteri e di sensazioni inafferrabili che riconducono ad un centro, rappresentato dal quadro della Natività rubato nell’Oratorio di S. Lorenzo a Palermo nel 1969 e mai più ritrovato. Il ritorno del protagonista, Manfredi, dopo otto anni, nel luogo in cui aveva vissuto tanti anni della sua vita lo fa immergere in un marasma di ricordi, in quella città per lui a volte incomprensibile: ”Palermo è una schiava che cerca un padrone sul quale regnare”, un luogo di contrazioni e di misteri, in cui ai vulcani è stata affidata l’irresolutezza della sua storia e il senso si sfida con il vento che soffia contro, in mezzo alle tempeste della vita.

Manfredi viene richiamato a Palermo da suo zio Rolando che vuole rivederlo ed egli accetta, pur inconsapevole del motivo della sua richiesta: egli, pianista di fama internazionale, aveva deciso improvvisamente di non suonare più, perché si era accorto che alla sua età avvertiva con serenità che non c’era più tempo, aveva ormai  ottantasette anni e, per continuare a vivere, bisognava “fingere che il tempo non esista”. Ciò che accomunava Manfredi e suo zio era la “passione per il tempo che non passa”: Manfredi non portava mai l’orologio, sentiva che il tempo intorno a lui si frantumava attraverso incertezze e dubbi e si sentiva circondato da un “esercito di fantasmi”. Egli era attratto dal carisma del silenzio magnetico dello zio e prova un profondo turbamento quando egli gli confessa frammenti di episodi della sua vita, soprattutto quando parlava del suo grande amore per sua moglie Eugenia: lei sapeva “sintonizzarsi in silenzio con tutte le sue emozioni e riusciva a contemplare i suoi segreti”. Il primo incontro tra di loro era avvenuto proprio davanti al rettangolo di muro dove era il quadro rubato: l’assenza dell’opera la attraeva con una forza misteriosa, quello spazio vuoto rappresentava tutto un mondo in cui ferveva la sua immaginazione. Lei avrebbe dovuto occuparsi del restauro dell’opera e studiava davanti al cavalletto stando sempre di spalle. Il profondo sentimento che li univa non si era mai spento, neanche dopo la morte di lei e le sue ceneri erano “tutto quello che rimane, ma non è tutto quello che rimane”. Suo zio credeva che fosse importante liberare la propria immaginazione,  accettando sia la nuova forma che prendiamo noi col passare del tempo e anche quella che prendono gli altri, anche se non ci sono più: “i morti bisogna trasformarli in essenze, non in fantasmi”,  liberandoli dai vincoli del ricordo.

Il labirinto dei ricordi in cui Manfredi si dibatteva e in cui si perdeva, gli faceva capire che ”cercare di dimenticare è il modo più pericoloso per ricordare”. Ripensava spesso con rimpianto a Flavia, il suo amore perduto e quel quadro legava le loro vite, come aveva fatto con Rolando ed Eugenia, quando egli le regala l’anello davanti a quello spazio vuoto. Quando egli rivede per caso Flavia, è come se il tempo si fosse fermato e poi la propria esistenza avesse ripreso il suo corso ed egli avesse ricominciato a vivere.

Profondo era sempre stato il legame che univa Manfredi a suo zio, che per lui era stato “un mare di notte”, ne aveva intuito il respiro, la profondità e il mistero e, negli ultimi momenti, egli voleva ”imparare a sciogliere la bellezza” nei suoi giorni. Nel momento in cui egli esegue una sonata di Chopin  per lui,  ciascuno dei due sentiva l’emozione dell’altro, immersa nella potenza e nella dolcezza della musica. Nel momento in cui Manfredi entra nella sua vecchia casa, piena di ricordi, di oggetti, si rese conto che ogni stanza rappresentava un mondo di affetti perduti.

Col passare del tempo Manfredi diviene consapevole di essere diventato estraneo a se stesso e nutre un sentimento aspro di impotenza e un’invincibile sensazione di solitudine. L’incontro con una bambina, che “appare e scompare” in alcuni momenti della sua esistenza diviene per lui un segno importante, che trasforma la sua vita che per la prima volta “si era messa al plurale” e la condivideva con un altro essere umano. Suggestivo è il momento in cui la bambina aveva cominciato a correre fino alla camera di sua madre e si era sdraiata sul suo letto, gesto che nessuno aveva più fatto dopo la sua morte.

Densa di significato è la lettera che Manfredi riceve dallo zio, in cui afferma di avere il desiderio di “varcare il confine della morte ad occhi aperti”, indicando anche la data, lo stesso giorno in cui fu rubata la Natività di Caravaggio, in cui scrive: ”nacque il mio dolore e il mio vuoto, ma nacque anche la mia felicità”. Erano come parole sospese nel “labirinto della memoria”, ma egli era costretto a bruciare la lettera, come gli aveva chiesto suo zio. Incamminandosi verso l’Orto Botanico, Manfredi si avventurava tra le pieghe di un passato indimostrabile: la scoperta dell’ orologio dello zio lo fa rendere conto del valore che quel luogo aveva per lui.

Entrando nella ”stanza delle memorie”, Manfredi veniva travolto dall’onda dei ricordi e stupito, si accorse che la bambina stava riordinando ogni cosa: il passare del tempo lascia le sue tracce e, dopo tredici giorni. la bambina inizia a sorridere, gli stringe la mano e vedendo le sue lacrime gli dice di non preoccuparsi e rappresenta una sorta di catarsi del proprio dolore.


martedì 25 novembre 2025

BiblioIlde: Le parole della pioggia - Laura Imai Messina


A cura di Ilde Rampino

“Sono nata in un giorno di pioggia”, una semplice frase che ha insegnato loro Aya, ma che racchiude un mondo, miriadi di emozioni, di segreti, di parole taciute, di sguardi che vorrebbero esprimere qualcosa, ma non ci riescono. E’ pronunciata dalle donne- ombrello, che fanno dell’accoglienza il loro tramite col mondo, per vivere alcuni momenti accanto a qualcuno e penetrare a piccoli passi nell’anima di chi accompagnano, a volte restando solo in silenzio. Cominciano a camminare con loro, alcune sorridono senza fatica; i clienti sono tutti diversi, chi ha voglia di parlare e chi, al contrario, si rinchiude in se stesso. Essere una donna- ombrello ogni volta è come un viaggio, percorso lentamente accanto a uomini stanchi o euforici, che talvolta affascinano con discorsi che non si comprendono. Aya era diversa da tutte, era la più giovane, ma anche la più bella. Era abituata alla pioggia: il nonno fabbricava ombrelli ed erano parte del suo mondo. Ogni ombrello è diverso ed è adatto ad una determinata situazione ed è necessario sceglierlo con cura: incanta il rumore dell’ombrello che si apre, sembra qualcosa di vivo che deve accogliere, sotto di esso, un’anima e proteggerla per un attimo dai rumori del mondo. 

Era il sogno realizzato di un visionario, appagato da un amore immaginario che voleva dare a tutti l’illusione o talvolta la certezza di una mano aperta verso il suo cuore, che non giudicasse mai.

L’autrice descrive, con estrema sensibilità e dolcezza, le sensazioni di queste donne che hanno fatto una scelta particolare, di apertura verso l’altro, uno sconosciuto, con cui condividere un pezzo di strada e condividere emozioni silenti, un lavoro strano, che pochi capirebbero: queste donne si rendono conto che buona parte delle nostre memorie hanno a che fare con l’acqua, legate a momenti dell’infanzia che hanno vissuto o che devono crearsi di nuovo. Esiste un mondo diverso da quello sotto l’ombrello, in cui non si può intervenire, ma solo seguire la corrente delle sensazioni. Molto significativo e pregnante è il gesto di Aya che butta i mandarini giù per la discesa, come per disfarsi di qualcosa che non le appartiene più e, allo stesso tempo, aspetta Toru, un ex pugile che in qualche modo farà parte della sua vita e a cui lascerà un messaggio importante: “nel mondo serve anche chi perde”. 

Suggestive e meravigliose sono le tantissime parole che indicano la pioggia, espressioni variegate che la definiscono, come “pioggia profumata, pioggia del cuore, pioggia dell’inquietudine, pioggia sottile come il pelo di un gatto, pioggia abitudinaria, pioggia di demoni, pioggia che passa via velocemente” e tante altre, frammenti di emozioni che sembrano palpitare al suono pacato di una solitudine avvertita o celata agli altri e forse anche a se stessi. Tra le pagine, vi sono illustrazioni che accompagnano le parole e il loro suono diventa immagine evanescente e concretizza un pensiero, attraverso colori tenui o forti che incarnano la sensazione descritta. 

Leggendo queste meravigliose pagine, dense di spunti di riflessioni , si viene trasportati in un’atmosfera rarefatta e quasi sognante, in una realtà immaginifica, in cui si avverte un “sentore di stagioni che appena arrivano, già passano” e si sente il bisogno di credere che le parole possono cambiare, come le nostre vite e cerchiamo continuamente di definire l’indefinibile con la consapevolezza che un colore può avere tanti nomi e che la nostra realtà è fatta di incontri che ci insegnano il valore dell’essere.


venerdì 21 novembre 2025

Ines De Leucio ipnotizza Sanremo con "Il sogno di Ida" - di Angela Caputo

 


Un meritato successo per Ines De Leucio - la Strega Aborigena - in occasione della sua partecipazione al Festival dell’arte contemporanea, avvenuto dal 13 al 16 novembre scorso sul prestigioso palco dell’Ariston di Sanremo. Il Festival è stato l’occasione per una grande festa, incontri di personaggi interessanti di tutto il mondo, registi, critici e storici dell’arte, curatori di mostre, intellettuali e artisti. Durante l’evento è stata presentata un’opera della De Leucio, dal titolo “Il bacio di Ida”, che ha partecipato al Premio Arte Mercato organizzato dalla Fondazione Effetto Arte: tutte le opere partecipanti sono state presentate in vide -esposizione. La premiazione è stata presieduta da Sandro Serradifalco, direttore artistico della Fondazione Effetto Arte, e alcuni membri del Comitato Scientifico. Le selezioni delle opere avvengono precedentemente, tutti gli artisti vengono poi inseriti in un catalogo con la nota critica della giuria della Fondazione. 



L'opera “Il sogno di Ida” è stata realizzata su tela nel 2010. In essa i toni del blu sono predominanti con gli azzurri e argenti  come un mantello  che avvolge  le figure abbozzare in un sinuoso movimento di sguardi non svelati e labbra piene di racconti d'amore. «In una società sempre più lontana dalla dolcezza e dal romanticismo – spiega Ines De Leucio – queste figure cercano amore, l'incontro con l'altro, anche impossibile, quello che ti conduce fino alle stelle, nell'indicibile. La cosa importante che mettiamo al centro il sentimento è il bisogno di romanticismo, di sentire il calore umano che non può essere sostituito dalle macchine, dai videogiochi, dalla violenza. Il bacio di Ida è una tempesta di vita, c'è ma non si vede». L'opera infatti è dedicata al bacio di Ida: la protagonista è assente perché, mentre canta i suoi versi magici, dipinge la tela e rivela la storia di un bacio con il principe invisibile.



«Orgoglio e sincera gratitudine – ha espresso commossa l’artista – al presidente di Fondazione Effetto Arte Sandro Serradifalco per avermi donato questa grande opportunità di essere presente con la mia opera “Il bacio di Ida”, per il continuo impegno nel creare eventi di alto, anzi altissimo livello. Per quattro giorni, il roof del celebre Teatro Ariston si è trasformato in una vera e propria galleria d’arte, accogliendo un evento esclusivo dove l’arte è stata protagonista assoluta. L’ingresso gratuito ha garantito la massima accessibilità, attirando un pubblico ampio e variegato, e rendendo la mostra un polo d’interesse culturale di riferimento per la città». Ad arricchire ulteriormente l’iniziativa, una serie di incontri, talk e dibattiti con critici d’arte e protagonisti del settore che hanno offerto spunti di riflessione e confronto sul panorama artistico contemporaneo, trasformando l’evento in un vivace laboratorio di idee e creatività. Sanremo ha accolto visitatori ed artisti provenienti da tutto il mondo.

mercoledì 19 novembre 2025

Memorie di una Janara: un atto di resistenza poetica e civile - di Silvia Cozzi


Emanuela Sica, avvocato, scrittrice, poetessa, dedita alla difesa dei diritti delle donne, anche in questa sua ultima opera dimostra grande sensibilità, umanità, cura ed impegno sociale. 

Il suo “Memorie di una Janara” - pubblicato a Dicembre 2024 da Delta3 Edizioni -  è un viaggio affascinante che parte dalla scoperta di un vecchio e misterioso manoscritto e si addentra, andando a ritroso nel tempo, con l’utilizzo di un linguaggio evocativo, nella sacralità e nel mistero dell’animo femminile, tra memoria, mito e denuncia sociale. 

Il libro, che fonde elementi di narrativa, poesia e racconti in vernacolo, tra cruda realtà e leggenda, è un atto di resistenza poetica e civile: un omaggio alle donne che, nei secoli, hanno incarnato la libertà e per questo sono state perseguitate.

La figura della Janara — strega campana, custode di saperi antichi e di un legame profondo con la natura — diventa il simbolo universale della donna indipendente, capace di pensare e agire fuori da schemi imposti. Emanuela restituisce dignità e voce a quelle donne che la storia ha voluto cancellare, ma che continuano a vivere nella memoria collettiva e nella poesia.

Il romanzo si muove tra realtà e leggenda, tra la concretezza della violenza patriarcale e la magia di un linguaggio lirico che trasforma il dolore in canto. Le poesie inserite nel testo sono come incantesimi: evocano la forza della terra, la ciclicità della vita, la resistenza silenziosa delle donne.

“Eclissi e fumi di ginepro
risvegliarono echi di risacche
croste di salsedine e coralli
seni turgidi e caprifogli
nel ventre del mio abisso
i carnali misteri che offristi all’altare
annegarono al tramonto
assioma di lapislazzuli e cremisi
Case disabitate i nostri baci
perimetri di rivoluzioni e stasi
Ora s’annoda stretta
la ragione ai pensieri
rinnega il calice del miraggio
lacera speranze tra pelle e destino
Da luce a ombra il ripiego dell’errore
divenne turbine che taglia la quiete
prese il mio amore per farne pianto
e nugolo di calabroni
cielo storto di un oracolo muto
Le parole che non pronunciai
sparse hanno senso del suono
nel sepolcro di quest’assenza
…non tarderà la tramontana
a ubriacarmi”


Il forte potere emotivo che la donna riesce ad avere sul genere maschile, da sempre spaventa, disorienta, e per questo è stata ed è oggetto di persecuzione, di sopraffazione, non dimentichiamoci delle donne mandate al rogo nel medioevo perché ritenute streghe, figlie del diavolo. Non è facile capire che la potenza seduttiva spesso nasconde fragilità, la capacità di donarsi incondizionatamente e senza secondi fini, solo per amore.

Memorie di una Janara è, in fondo, una riflessione sulla paura del diverso e sulla necessità di riconciliarsi con ciò che è stato demonizzato: il femminile, l’intuizione, la libertà. Una lettura che invita a guardare oltre le ombre della storia per ritrovare la luce di una nuova consapevolezza in cui alla donna viene restituita la preziosità del suo ruolo e il suo affascinante rapporto con la magia e dunque con l'essenza della vita, due aspetti che da sempre si ripetono nei secoli e che niente e nessuno potrà mai cancellare.

Silvia Cozzi Poetessa e Scrittrice


martedì 23 settembre 2025

BiblioIlde: Sei la mia vita - Ferzan Ozpetek

A cura di Ilde Rampino

Il sentimento profondo che li univa, nonostante i contrasti,  stemperati sempre dal suo meraviglioso sorriso, “ti avrei portato con me tenendoti per mano per non perderti”, un amore che non finisce mai, il loro mondo vissuto giorno per giorno e scandito  dall’alfabeto della felicità. Egli aveva reso la sua vita migliore e anche ora che erano sballottati da una tempesta di emozioni, egli voleva esserci solo per lui, anche se era lontano mille miglia, perso nel suo “bosco delle meraviglie”, in una realtà fatta di pensieri senza memoria: loro due erano una cosa sola.

Il protagonista riflette sull’inutilità del vivere senza la forza del suo amore, perché con lui rinasceva ogni giorno: significativa la frase "Nel mio cuore c’è solo un prima di te e uno durante te, è senza di te che non riesco nemmeno ad immaginarmi”: avvertiva la necessità di preservarne la memoria, cercando qualche scintilla di luce nel buio nel quale era immerso e ripensando continuamente al giorno in cui “si era perso”. Lo teneva tra le braccia con tutta la forza e la tenerezza di cui era capace, perché non voleva perdersi nessun istante della loro esistenza insieme.

La vita di prima non aveva più senso: spegnere il cellulare e gettarlo tra i rovi rappresentava la sua decisione che era venuto il momento di dedicargli completamente me stesso e prendersi cura di lui. Avrebbe voluto vivere ogni istante come se fosse l’ultimo, pensando che, nonostante tutto, avrebbero potuto essere ancora felici e in quel momento così difficile aveva compreso cosa voleva dire voler veramente a qualcuno.

Un libro toccante e denso di emozioni che scaturiscono libere e profonde: un messaggio di vita e di libertà.


The Moonlight's verses - Said Abdel Khaleq

Giuseppina Manganelli traduce in inglese il poeta Said Abdel Khaleq

                           THE PORT OF GAZA                           

  Perhaps the Fleet will arrive!

With its vessels.

We are preparing to welcome them in the port of Gaza.

They will bring food, medicine and sweet water, sweet like the face of its port once.

But we want nothing!

Only that they take the invader away from us.

We resist starvation, thirst, cold, heat.

They will raise anchor from international waters.

Perhaps they will be halted by the nationalists wearing God’s suit.

All we want from this fleet is to bring

dignity.

Freedom

Peace.

A pen and a sheet on which we will write the new anthem.

Give us not false hope.

We hear you are near.

On the edge of the port 

we will await you desperately. 

Give us

Dignity.

Freedom

Peace.

Sweet water, sweet like the face of the port of Gaza.

And forget not to bring us so many colors,

a new religion,

a new prophet.

Bring us everything with life in it.

But bring not a new homeland. 

Gaza is enough for us with its suffering.

We are enough for it with all our love.



IL PORTO DI GAZA 

Forse arriverà la Flotta!

Con le sue barche.

Noi ci prepariamo ad accoglierla nel porto di Gaza.

Porteranno cibo, medicine e acqua dolce, come il volto del suo porto una volta.

Ma noi non vogliamo nulla! 

Solo che ci portino via l'invasore.

Noi resistiamo alla fame, alla sete, al freddo, al caldo.

Salperanno dalle acque internazionali.

Forse verranno fermati dai nazionalisti con addosso l'abito di Dio.

Tutto quello che vogliamo da questa flotta è che ci porti

la dignità.

La libertà 

La pace.

Una penna e un foglio dove scriveremo il nuovo inno.

Non ci illudete!

Vi sentiamo vicino.

Sul bordo del porto 

vi aspettiamo disperatamente.

Donateci 

la dignità.

La libertà 

La pace.

L' acqua dolce come il volto del porto di Gaza.

E non dimenticate di portarci tanti colori,

una religione nuova,

un profeta nuovo.

Portatateci tutto con la vita in essa.

Ma non portate una patria nuova.

Gaza ci basta con tutto il suo dolore.

Noi le bastiamo con tutto il nostro amore.



martedì 2 settembre 2025

A Roma si costruisce un ponte tra Italia e Cina fatto di poesia

La città eterna è pronta ad accogliere un incontro inedito, un viaggio poetico che intreccerà due civiltà millenarie. Sta per alzarsi il sipario sul primo Festival di poesia italo-cinese, un appuntamento che promette di trasformare Roma in un crocevia di parole, immagini e visioni condivise. L’iniziativa nasce dal desiderio di unire, attraverso i versi, due tradizioni letterarie profondamente diverse ma accomunate dalla stessa tensione verso la bellezza e il senso. La poesia diventa così ponte, soglia, invito a guardare l’altro con occhi nuovi. 

Fulcro del Festival saranno due raccolte gemelle: una selezione di 38 poeti cinesi contemporanei, presentata per la prima volta in lingua italiana; e la più vasta antologia di poeti italiani contemporanei mai tradotta in cinese. Due mondi che si riflettono, si studiano, si riscoprono attraverso la lente preziosa della traduzione. Il programma prevede letture bilingui, dialoghi tra poeti, traduttori e critici, momenti di confronto sul ruolo della letteratura come strumento di diplomazia culturale. Non mancheranno contributi di istituzioni, case editrici e associazioni letterarie dei due Paesi, a testimonianza di un impegno condiviso che va oltre i confini nazionali.

Vediamo in dettaglio chi sarà presente e cosa si presenterà.

Hu Xian, classe 1966, poeta, saggista e direttore dello «Yangtze River Poetry Journal», uno degli autori più rappresentativi e autorevoli della poesia cinese contemporanea - sarà tra i protagonisti e ospiti della giornata. 

Al Festival di poesia italo-cinese - promosso da Delufa Press e Jiangsu Phoenix Literature and Art Publishing, in collaborazione con ASIC (Associazione Sviluppo Italia Cina), ISMEO (Istituto internazionale di Studi sul Mediterraneo e l’Oriente), Hollywood Roma Tutto sul Cinema, Radio Rock, Sinaforum e Oryza - parteciperanno anche altri poeti, autori, traduttori, artisti e curatori del dialogo tra Italia e Cina tra i quali Irma Bacci, Stefano Bottero, Cai Chongda, Federica D’Amato, Claudio Damiani, Emanuele Dattilo, Maurizio Gregorini, Iago, Lin Bai, Matteo Marchesini, Claudio Marrucci, Marco Masciovecchio, Renzo Paris, Elio Pecora, Gilda Policastro, Rocco Salvia, Gino Scartaghiande, Shu Cai, Gabriella Sica, Maurizio Soldini, Brunello Tirozzi, Antonio Veneziani e Wu Yiqin. 

  • La prima Antologia di poesia cinese contemporanea, curata da Francesco De Luca e Jiangsu Phoenix Literature and Art Publishing, con la prefazione di Shu Cai (e le traduzioni di  De Luca stesso), è pubblicata in Italia da Delufa Press [raccoglie una quarantina di voci della poesia cinese contemporanea, molte delle quali per la prima volta in lingua italiana].
  • La seconda, invece, consente la penetrazione in Cina della nostra produzione contemporanea con un’ampia selezione di testi di trenta poeti italiani contemporanei mai tradotti in lingua cinese, è l’Antologia di poesia italiana contemporanea, curata sempre da Francesco De Luca con la Prefazione di Renzo Paris e le traduzioni dall'italiano in cinese di Liu Guopeng, pubblicata in Cina da Jiangsu Phoenix Literature and Art Publishing.

E dunque Roma, con il suo respiro universale, diventa così il palcoscenico ideale per un incontro che è molto più di un festival. Si tratta di un potente atto di ascolto reciproco, un patto di amicizia, un ponte che si costruisce attraverso la parola poetica. In un tempo che sembra frammentare e dividere, il Festival si pone come risposta: l’arte dei versi come bussola, il suono delle lingue come carezza, la traduzione come atto d'amore e fratellanza.


domenica 31 agosto 2025

Dal cuore dell’Irpinia alle sale operatorie: il prof. Antonio Giorgio e la lotta ai tumori epatici


A cura di Gerardo Vespucci

I tumori epatici: 40 anni di cura, mediante l’alcolizzazione eco guidata, e il ruolo determinante del ‘nostro’ dott. prof. Antonio Giorgio (Tonino). 

La medicina, è noto, ha accompagnato la civiltà dell’uomo, nel senso che da subito l’umanità ha cercato in ogni modo di liberarsi delle malattie, del dolore, delle ferite…della paura della morte: del resto, è molto più facile, più naturale, ammalarsi, piuttosto che stare bene! 

Le prime civiltà hanno provato con ogni mezzo a superare il malessere, a provocare la guarigione, per tentativi ed errori, trasmettendo alle generazioni successive le esperienze acquisite, con erbe, con pratiche chirurgiche e simboliche, fino a sconfinare nella magia e nelle ritualità religiose: è di questi mesi la notizia che persino i Bonobi, le scimmie più simili a noi, sono in grado di curare le ferite con impacchi di erbe particolari, intrise della propria saliva. 

In ogni comunità del passato, non mancavano mai i guaritori, figure superiori, sciamaniche, ossia in grado di fare da intermediazione tra l’ultramondo divino e la realtà, tra gli spiriti ed il malato, al fine di guarirlo: nella stessa Grecia di Ippocrate, erano presenti i templi dedicati al Dio della medicina, Asclepio, affinché, invocandolo, le pratiche mediche avessero successo, sebbene la medicina ippocratica avesse già acquisito una sequenza medica rigorosa, dalla diagnosi alla prognosi, fino alla determinazione delle cause ambientali, come l’aria e l’acqua. 

Come per altre scienze, anche per la medicina la civiltà dell’Occidente è debitrice alla Grecia, e, non a caso, è Aristotele a codificare la medicina come tekné, ossia arte, una forma elevata di conoscenza, sebbene non proprio come la filosofia, perché, come afferma nel libro I della Metafisica, «[…] l’esperienza è conoscenza dei particolari, mentre l’arte è conoscenza degli universali. […] gli empirici sanno il puro dato di fatto, ma non il perché di esso; invece, gli altri conoscono il perché e la causa»

Coerentemente, ne deriva, come egli ricorda, che il medico cura il malato, la Medicina si occupa della malattia: e così da allora, la Medicina ha assunto sempre più le caratteristiche di una scienza rigorosa, non cercando fuori dai propri principi la spiegazione dei fenomeni patologici, i rimedi ed i processi verso le guarigioni.

Oggi, in vero, siamo di fronte ad una super scienza, poiché nella Medicina moderna trovano un punto di applicazione tutte le grandi discipline, dalla biologia dei processi molecolari alla chimica farmaceutica, dalla fisica delle particelle alla matematica statistica, dalla informatica delle strumentazioni curative all’Intelligenza artificiale, ormai parte integrante per la diagnosi e terapia.

Eppure: di fronte a scoperte di cure sempre più avanzate e straordinarie, lo stesso linguaggio tradisce le origini di questa strana scienza: quante volte sentiamo dire: è un vero miracolo, è sensazionale, c’è finalmente una cura miracolosa.

Questo accade, purtroppo, perché delle scoperte non si conoscono i processi storici, lo svolgimento nel tempo, il lavoro spesso oscuro di decine di scienziati impegnati nella ricerca e di tanti medici clinici, di cui si ignorano i nomi, che quotidianamente lavorano negli ospedali.

Diciamo che la grande cenerentola che produce ignoranza – tanto più pericolosa oggi con i social - è la Storia della medicina, ed è un guaio, perché – per dirla con Imre Lakàtos, filosofo della scienza e matematico – la Scienza senza la Storia è cieca!  

Ed è di una storia in particolare che intendiamo parlare, anche perché vede tra i protagonisti, in assoluto, uno dei nostri figli migliori, il dott. Prof. Antonio Giorgio (nostri, ovvero di Sant’Andrea di Conza, dove ebbe i natali nel 1948): è la storia dell’alcolizzazione dei tumori epatici che, in 40 anni di applicazione, ha determinato la maggiore sopravvivenza di decine di migliaia di ammalati, migliorandone la qualità della vita in maniera straordinaria ed assoluta.

Andiamo con ordine e partiamo dal problema, ossia il tumore epatico. Abbiamo chiesto al prof. Giorgio di riassumerne i tratti essenziali ed ecco la sua lezione: 

«L’HCC – Hepato Cellular Carcinoma - è il tumore maligno più frequente del fegato ed è al quinto posto tra i tumori maligni al mondo. È più frequente nei maschi e, caratteristicamente, insorge sulla cirrosi epatica. Rappresenta inoltre la principale causa di morte nei cirrotici. Le cause principali della sua insorgenza sono l‘infezione cronica da virus dell’epatite B, dell’epatite C e abuso di alcool. Ancora oggi, l’HCC è una malattia ad esito infausto a meno che non si intervenga con una di queste tecniche: il trapianto di fegato, che cura sia il tumore che la cirrosi; l‘asportazione chirurgica (cosiddetta resezione epatica) e le cosiddette terapie ablative ( vale a dire l ‘introduzione all’interno del tumore del fegato di un ago per via percutanea – senza aprire l’addome del paziente - di sostanze chimiche come l’alcool assoluto sterile al 95% , sotto la guida dell’ecografia, la cosiddetta alcolizzazione e che è stata introdotta per prima) o trattamenti fisici ( sempre senza aprire l’addome che distruggono il tumore come il calore (radiofrequenza e microonde)» 

Tonino -come lo chiamano gli amici del paese - ha ricordato che le terapie ablative fortunatamente si sono imposte negli ultimi 40 anni perché, purtroppo, il numero di fegati necessari per i trapianti è superiore alle donazioni, mentre l’intervento chirurgico può essere effettuato solo nel 20-30 % dei casi, a causa della cirrosi sottostante l’HCC. 

Come già detto, il dott. Giorgio si è imposto nel mondo della medicina grazie proprio alle tecniche ablative e quindi gli abbiamo chiesto come ciò sia accaduto, anche in considerazione del fatto che lui, poco più che trentenne, sul finire degli anni Settanta, era già operativo al famoso Cotugno di Napoli, ma pur sempre in una parte d’Italia non proprio d’avanguardia per la medicina.

Ed ecco il suo racconto:

«Ho sentito parlare della possibilità di introdurre alcool assoluto in un tumore maligno di fegato a marzo 1985 – 40 anni fa - a Piacenza in un congresso di ecointerventistica da parte del primo italiano, Tito Livraghi, radiologo di un oscuro ospedale della provincia milanese sito a Vimercate. Io non avevo mai visto tale tecnica né mai assistito dal vivo all’introduzione dell’ago all’ interno del fegato, sotto guida ecografica, e della successiva introduzione dell’alcol all’interno dell’HCC, ma appena tornato a Napoli, trattai subito ‘senza sapere né leggere né scrivere’ il primo paziente che manco a dirlo si chiamava Esposito: visse tre anni mentre la sopravvivenza di allora era di appena sei mesi!»

Conosco bene Tonino, la sua determinazione ed il suo entusiasmo, ma viene spontaneo chiedergli come abbia potuto affrontare con fiducia e sicurezza tanti malati gravi, rischiando l’insuccesso, ed anche confrontarsi con il top della medicina mondiale: ed ecco le sue parole:

«Anch’io spesso mi chiedo chi mi abbia dato la forza. Mi ha mosso sicuramente quello spirito di incosciente coraggio giovanile che spinge ad osare e andare sempre un po’ più avanti. Credo però che mi abbia anche sollecitato il dolore e l’angoscia che vedevo nei pazienti cirrotici che in altissimo numero afferivano all’Ospedale Cotugno e che, già allora, erano costretti – altrimenti - alla cosiddetta migrazione sanitaria, che in quei tempi era verso l’Ospedale Paul Brousse di Parigi. In più, vi era la grande passione che avevo e tuttora ho nell’ ecografia che è stata una vera grande rivoluzione nella medicina degli ultimi 50 anni (appena festeggiati a maggio a Bologna, sede dell’ecografia clinica italiana), e di cui ho avuto modo di diffondere le tecniche di terapia percutanea eco guidata, anche con la pubblicazione, nei primi anni Novanta, di alcuni manuali specifici, utilizzati da centinaia di medici nei corsi di formazione da noi organizzati.»

Con orgoglio, Tonino ricorda gli anni più belli, in cui i pazienti, sempre in numero maggiore, arrivavano al Cotugno da tutte le parti d’Italia, sofferenti ma fiduciosi; di essi, ovviamente, molti erano meridionali, così che il centro di Napoli divenne l’unico riferimento fino a Roma e oltre: bisognava andare al di sopra della linea gotica per avere le stesse prestazioni di successo, ed infatti, Tito Livraghi nel 1986 pubblicò su Radiology i primi 13 casi di guarigione.

La tecnica si impose subito in tutto il mondo, tanto da essere ripresa da quotidiani di altri paesi come Le Monde, El Pais ed altri. Ad essere precisi, però, il primo vero inventore della tecnica dell’alcolizzazione era stato un medico giapponese, il prof Sugiura, anche perché in Giappone gli HCC erano molto più frequenti che da noi.  

Addirittura, Tonino ha ricordato che, in uno dei tanti congressi annuali internazionali di Chicago, incontrò un professore giapponese che lui conosceva, che a un certo punto, chiacchierando, chiese al suo allievo: “ma nel 1978 quanti pazienti avevamo già trattato?”

Il dott. Sugiura aveva reso pubblica la tecnica nel 1983, ma in giapponese, che ovviamente nessuno leggeva o capiva e quindi il merito fu attribuito tutto a Livraghi. 

Il prof. Giorgio non nasconde la propria soddisfazione nel ricordare che i principali protagonisti e i competitori dei giapponesi erano proprio loro, quei giovani che avevano osato sfidare le accademie, imponendo l’alcolizzazione immediatamente, anche surclassando la chirurgia - che era l’unica tecnica curativa - poiché essa era gravata da mortalità e complicanze elevate che arrivavano fino al 45 per cento e che poteva essere praticata solo in pochissimi casi, perché i pazienti erano tutti cirrotici . 

Tonino aggiunge: «Lo spirito, (vale a dire l’alcool etilico puro, come lo chiamo io anche nei congressi internazionali) invece aveva una mortalità dello 0,6 per cento e una sopravvivenza uguale a quella della chirurgia con la differenza che i chirurghi dovevano selezionare moltissimo i loro pazienti. Mettiamo, poi, che la tecnica era ambulatoriale! Non so se ci si rende conto: il paziente veniva in ospedale con un nodulo di 3 cm, e con solo due, tre sedute ambulatoriali era finita, tornava alla vita normale!»

Già nel 1995 Livraghi, Giorgio ed altri (Radiology, 1995) pubblicarono i risultati della sopravvivenza a 5 anni:

«Venne fuori che tale valore era pari al 50% dei pazienti trattati (un grande risultato!): era esattamente uguale a quelli ottenuti con la chirurgia, ma con la differenza che essi (i chirurghi) dovevano effettuare una selezione fortissima, sempre con mortalità e complicanze come detto sopra, mentre noi operavamo in ambulatorio!»

A fronte di simili evidenze, i pazienti, sia per Giorgio che per Livraghi, divennero migliaia; Giorgio, col suo gruppo al Cotugno, effettuava più di 900 sedute l’anno!

Sempre nel 1995, Livraghi coordinò uno studio multicentrico a livello nazionale, analizzando i risultati su 796 pazienti con epatocarcinoma su cirrosi, trattati con alcolizzazione percutanea eco guidata.

Giorgio ricorda soddisfatto quei risultati incredibili, perché: «questa tecnica, non solo aveva gli stessi risultati a cinque anni della chirurgia, che ancora veniva considerata la tecnica di elezione per il trattamento dell’HCC, ma presentava un numero nettamente minore di complicanze e di mortalità, comparata con la resezione chirurgica.  In più, ricordiamo che la resezione chirurgica era riservata a pazienti nettamente selezionati (di fatto, meno del 20% dei pazienti con HCC su cirrosi, mentre la nostra tecnica veniva applicata anche a pazienti con ridotta funzionalità epatica. L'altro dato che venne chiaramente fuori fu che, ovviamente, più era piccolo il nodulo maligno (< 3 cm) e più migliorava la sopravvivenza.»

Ulteriore conferma della bontà di questa tecnica, giunse dopo pochissimo tempo con un altro studio di sondaggio delle complicanze dell’alcolizzazione su 1066 pazienti. Lo studio, coordinato dai medici di Piacenza, dimostrò che sui mille e passa pazienti alcolizzati si era verificato un solo decesso: praticamente un successo totale, specie se comparato con l’alta mortalità insita nell’intervento chirurgico.

A questo punto niente più poteva precludere il successo dell’alcolizzazione: essa si diffuse in tutto il mondo con una rapidità impressionante e migliaia e migliaia di pazienti vennero trattati e curati. Addirittura, nell’anno 2000 a Barcellona giunse il riconoscimento ufficiale: durante la Consensus Conference (vale adire la riunione di esperti per indicare le linee guida del management dell’HCC) la PEI venne indicata come intervento curativo dell’HCC su cirrosi, al pari dell’intervento chirurgico e del trapianto di fegato

Fu, per noi, un grandissimo riconoscimento.

Il grande successo dell’alcolizzazione aprì le porte ad una serie di ulteriori ricerche per migliorare le tecniche ablative -cioè come far sì che il nodulo tumorale venisse “cotto” con il calore. Per prima arrivò la radiofrequenza, ossia la tecnica che consisteva nell’introduzione nel tumore, sempre sotto guida ecografica, di un ago, collegato ad un generatore di onde a radiofrequenza, e la cui punta si riscaldava a cento gradi. Successivamente si è inserita l’ablazione con le microonde, una tecnica di derivazione cinese, che aveva una potenza maggiore della radiofrequenza: questa metodica è capace di cuocere (ablare) anche piccoli noduli vicini alla periferia del tumore (cosiddetti noduli satelliti), che l’alcool non raggiunge; le microonde, a loro volta, sono in grado di indurre la distruzione di noduli di grosse dimensioni, anche in una sola seduta. Oltre che per l’HCC su cirrosi, questa metodica andava bene anche per il trattamento delle metastasi epatiche.

A queste tre tecniche principali, ci dice il dott. Giorgio, «si è aggiunta infine, un’ultima metodica chiamata Elettroporazione Irreversibile (IRE) che utilizza il passaggio della corrente elettrica tra due o più aghi, sempre sotto la guida dell’ecografia: è quella che ultimamente utilizzo meglio, ma è più costosa e con indicazioni estremamente particolari. Di tutte queste metodiche usate per l’ablazione percutanea guidata dall’ecografia dei tumori del fegato, i mie gruppi, prima all’Ospedale Cotugno di Napoli, che sicuramente ha rappresentato l’eccellenza italiana e internazionale per l’alcolizzazione, e poi, nelle altre cliniche, una volta lasciato l’Ospedale , hanno continuato ad eccellere in queste tecniche con centinaia e centinaia di pazienti trattati: basti dire che i dati pubblicati da me e dal mio gruppo, nel 2019, sull’Elettroporazione Irreversibile, rappresentano ancora la casistica più numerosa in Italia».

Gli ho chiesto se ci fosse ancora in questi anni una grande frequenza di tumori epatici o malattie gravi del fegato, considerato che negli ultimi tempi, grazie alla prevenzione con la vaccinazione per l’epatite B ed al trattamento con i nuovi farmaci antivirali per l’epatite C, si sarebbe dovuto limitarne i casi. 

Ecco la sua risposta: «una nuova patologia, chiamata Steatosi Epatica non Alcolica (NAFLD), ha preso il posto delle infezioni virali come causa di cirrosi ed HCC. L ‘aumento infatti del diabete, delle persone sovrappeso e degli obesi ha portato alla cosiddetta sindrome metabolica (diabete, ipercolesterolemia, obesità ,ipertensione arteriosa , malattie cardiovascolari) per cui il termine NAFLD è stato cambiato in MASLD vale a dire Metabolic-disfuntion assiociatde steatotic liver disease che significa alterazioni metaboliche –diabete ecc. come detto prima- in pazienti non bevitori e comporta un accumulo di grasso nel fegato , la cosiddetta steatosi epatica, con gravi insufficienze funzionali del fegato.»

Siamo giunti alla fine di questo notevole excursus ed un sentimento mi assale e mi preme esprimere: stima infinita ed immensa gratitudine verso questo grande medico che ancora oggi, da alcuni anni in pensione, trova la sua ragione di vita nel sentirsi utile ai pazienti, che quasi ogni giorno aiuta a vivere, operando in alcune cliniche della Campania.

Se fosse vissuto in altra epoca ed altro luogo, al dott. prof. Antonio Giorgio sarebbero stati tributati lodi ed onori, ma i tempi oscuri, in cui ci tocca vivere, sono pieni di mediocrità e questo scatto di riconoscenza non può certo accadere. Ma, vien voglia di dire con gli antichi, nihil novum sub sole, e lo stesso Leopardi, due secoli fa, ormai, ci aveva ammoniti con l’esergo de La Ginestra: Gli uomini preferirono le tenebre alla luce! 

mercoledì 27 agosto 2025

BiblioIlde: "Io che ti ho voluto così bene" di Roberta Recchia

 


A cura di Ilde Rampino

Amore e dolore che si fondono in una vicenda che crea una frattura nell’anima che rimarrà latente per tantissimo tempo.

Nell’estate dei suoi dieci anni, Luca fu colto da una folgorazione e venerava Betta da lontano, un amore che giudicava senza speranza, la rincorreva, affidandosi ai piccoli segni che lei gli rivolgeva: le aveva comprato un regalo, un braccialetto colorato della fortuna che lei indossò e rappresentò un simbolo del suo amore e poi della sua disperazione. Quando non la vide più tornare a Torre Domizia, diventò sempre più ombroso, gli mancava molto e ricordava il “grazie” che gli aveva detto, in silenzio, muovendo solo le labbra. La scoperta della sua morte lo fa sprofondare in un  dolore muto, si svegliava di soprassalto di notte e aveva la sensazione di soffocare, mentre la tristezza gli galleggiava dentro.

A quindici anni la sua vita si trasforma improvvisamente ed è costretto ad andarsene e viene accolto dallo zio Umberto, in cui ritrova il senso di famiglia che aveva perduto, nonostante degli inizi difficili. Il crimine di Maurizio aveva travolto, come una tempesta infinita,  tutta la loro esistenza, come se avesse disperso semi velenosi lungo il percorso della loro quotidianità. Luca si sente profondamente solo, nonostante l’affetto che lo circonda, sente che il rapporto con i suoi genitori, a causa del gesto di Maurizio, è stato distrutto e reso sfilacciato dalla sofferenza, avverte la freddezza di sua madre, anche se si rende conto che è dettata dal dolore. Comincia a studiare quasi con rabbia e per allontanare i pensieri,”arrancava in una vita sospesa”, ma la vita lo pone davanti a prove ancora più difficili e alla tensione e alla paura che prova sua zia Mara nei suoi confronti. Suo zio Umberto si trasferisce con lui per qualche tempo dai padri Oblati: Luca pensava alla sua casa che non c’era più, alla sua vita di prima completamente distrutta di cui rimaneva solo cenere, va a trovare sua madre Lilia in ospedale e incontra la madre di Betta, distrutta dal dolore, ma che si preoccupa della sofferenza degli altri, rivelando un grande cuore. Le parole della madre: ”il gioco lo hai vinto tu” rappresentano per lui una pietra miliare, da cui poter rinascere e recuperare la fiducia in se stesso che aveva perduto, nascosta dal dolore e dal senso di colpa che nonostante tutto, provava. Luca diventa un’altra persona, riscatta il suo passato e riesce a prendersi cura delle cugine in una situazione complicata, conquistando la riconoscenza della zia Mara attraverso le sue parole:  “tua madre sarebbe molto fiera di te”.

Il cambiamento interiore di Luca che, nonostante il dolore e le difficoltà della vita, è riuscito a trovare la propria strada, ha delle ripercussioni positive anche nei confronti di suo padre Tommaso, che si è chiuso in se stesso e ha difficoltà nel rapporto con gli altri. Si è rifugiato in una vecchia casa in un bosco e vive in modo semplice e solitario, imparava a memoria gli orari dei treni per ritrovare un tempo dimenticato, finchè, un giorno che Luca è andato a trovarlo, trovano un cane, Alma, che farà compagnia al padre mentre egli tornerà dagli zii e rappresenterà qualcosa di importante per lui.

Pian piano è come se il treno della vita ritrovasse i binari del tempo e raddrizzasse la rotta per recuperare gli affetti perduti, perché Luca accettasse, senza disperazione la morte del padre, mentre raccoglieva le more per la marmellata per Stella, la sua piccola nipote, riprendesse le fila, anche se a fatica, del rapporto interrotto tanti anni prima con suo fratello Maurizio, permettendogli di andare al funerale del padre.  Quella vecchia radiolina da cui aveva appreso la terribile notizia gli fa esplodere dentro una rabbia feroce: Luca era arrivato ad un passo dall’ucciderlo, ma improvvisamente aveva capito l’impossibilità dell’odio e che dalla sofferenza si poteva guarire.”La caduta non era altro che lo sgambetto della vita”, ci si doveva fermare e poi si doveva riprendere la corsa senza pesi sul cuore.


martedì 26 agosto 2025

Po(et)scards from Palestine: Samar Al Ghussein


Samar Al Ghussein - scrittrice e poetessa di Gaza - nei suoi testi c’è amore, speranza e la bellezza nascosta nella tragedia. Le sue opere sono state pubblicate in diverse testate come la rivista MPT e il quotidiano Al-Ayyam Al-Arabiya.

"Scrivo perché vedo la poesia come un modo per rendere immortali le nostre vite."




Due anni —
e questo luogo è un cimitero.
I morti sopra la terra,
i morti sotto la terra,
e gli ulivi
ci danno olio rosso,
mangiato dai figli degli uccisi,
irrigato dal loro sangue.

Due anni —
e questo luogo è un cimitero.
Così getto sulla città
un grande sudario.
In ogni metro, qualcuno dorme;
in ogni metro, un cadavere.

E il mare li piange
sulla sua sacra sponda,
accumulati in massacri.

Due anni —
e le bocche dei profeti
sono spine tristi.
La città non è mai stata libera
dal pianto,
dai templi,
dalla catastrofe.

Due anni —
e le nostre anime nella città
sono numeri su un dado
lanciato ogni giorno dal massacro,
che sceglie a caso
e poi miete.