IL GOL
Tutto si svolge come da copione. La presenza si
materializza fulminea. Una scarica di luce ed immagini risucchiati da una forza
straordinaria. Anche se il tempo non viene percepito, tutto succede in fretta. Il
terreno, se così lo possiamo chiamare, è pronto. In perenne attesa di quell’evento,
si conforma all’orma, sottomettendosi a quel peso strano. Appena l’impronta
segna il suo calco così un recinto viene innalzato. Paletti, mattoni o reticoli,
generati da quello stesso terreno. Fissano e definiscono i contorni di ciò che
è appena accaduto. Limitando i confini con altre recinzioni di legno, ferro, cemento
o materiali sconosciuti. Ognuno di una consistenza diversa. Alcuni solidi,
altri fragili, alternati come in un puzzle. Un evento naturale quanto necessario
perché se quell’impronta non si fissasse nel terreno non ci sarebbe vita o
meglio non ci sarebbe esistenza. Alcun orizzonte lieto da osservare ma neanche
un serio pericolo da evitare. Cos’è il terreno e cosa l’impronta? Niente altro che la
memoria e i ricordi. Ciò che permette di riconoscere il mondo e riconoscere noi
in quel mondo. E dall’uso che ne facciamo ogni cosa dipende. A volte
la memoria può semplicemente tenere lontano la mano dal fuoco. In quel caso
l’uso è funzionale, adeguato al momento. Un nastro che, riavvolgendosi, ci avvisa
cosa è dolore. Da bambini l’uso che ne facciamo è simile ad un registratore. Memoria
su cui nessuno “rimugina”. Non si ha il tempo, travolti come siamo dalla
crescita. Ma è nell’età adulta che iniziamo a “rimuginare”. E’ paradossale ma è
con la maturità che si inizia a far uso, buono o cattivo, della memoria. Buon
uso: separando la memoria che conta da quella di passaggio, di superficie. Simile
al distacco delle foglie d’autunno da un albero che si prepara a ricevere nuovi
germogli per la primavera. Segno che quei ricordi hanno fatto il loro tempo. Finiti
per far spazio ad altro. Uno o più tagli per staccare ciò che non serve. Eppure
la memoria
custodisce un meraviglioso quanto misterioso progetto: la nostra vita. Nell’evoluzione
di chi siamo e chi diventeremo la memoria si alterna, o dovrebbe alternarsi,
con sapienza, al suo compagno, severo quanto necessario: l’oblio. Quando un ricordo viene a trovarci possiamo scegliere
che uso farne. Se farlo diventare un’esperienza che ci costruisce,
fortificandoci oppure se farlo diventare un tarlo, un’ossessione. Spesso la
memoria è dolorosa. Dolorosa quando, senza rendercene conto, compiamo delle
operazioni mentali che ci proiettano nel passato ed in quel passato restiamo imbrigliati.
Continuando
a tenere quel ricordo nei recinti della nostra memoria reiteriamo
solo il processo e la condanna verso noi stessi o gli altri: “ho commesso un
errore imperdonabile”oppure “non ho dimenticato ciò che mi ha fatto”. Ottime
premesse per l’alterazione del presente e la chiusura al futuro. Spesso quando
ciò che abbiamo è povero, deludente, cerchiamo conforto nella nostalgia di un ricordo,
edulcorato, pieno solo di consistenze evanescenti. Eppure cercare asilo nel
passato ci fa sentire sempre più insoddisfatti. Crogiolarsi in un rimpianto è
solo un alibi per non rimettersi in gioco, per paura o timore di affrontarlo. Ma
quel gioco è la vita ed è necessario scendere in campo, non rimanere in
panchina, altrimenti altri segneranno il gol di svolta della nostra esistenza. Ed
allora sì che rimarremmo schiavi dei rimpianti