Una crisalide
Nel trepido intreccio delle loro menti, legate da lacci invisibili, si muovevano senza mutare la direzione, in un’attrattiva senza confini, senza limiti. E la passione che, elettrica, correva su quei fili, non faceva altro che generare pensieri. Idee di appartenersi, anche solo con una carezza o un fugace contatto. Contatto che avrebbe generato brividi simultanei, avvertiti con la stessa potenza, senza alcuna limitazione di sorta. Conoscere l’uomo e la donna della propria vita, l’altra metà della mela, era, per loro, una ricerca incosciente, eppure presente, viva e senza sosta. Uomo e donna che, nei rispettivi sogni, si ricoprivano d’argilla per prendere le sembianze di quello che era il più nascosto dei loro desideri.
Svelando la scenografia limbica di quello che aspiravano di essere.
Di quella consistenza che avrebbe dovuto avere la loro
vita al sorgere del sole e non soltanto la notte, momento in cui, nelle
articolate immagini dei pensieri sognanti, si mostravano fieri, forti di
sapersi fin dentro le ossa, di conoscersi, di accettarsi senza alcuna remora,
senza alcuna finzione.
Eppure l’interruttore dei sogni era sempre lo stesso e
faceva clic, con puntualità, al risveglio. Risveglio che li catapultava, quasi
con violenza, in altre vite. Li posizionava, come in due opposte scacchiere, in
altre direzioni.
Così a loro non rimaneva altro che un tiepido ricordo pronto a
riscaldarsi di nuovo e diventare incendio, all’arrivo della luna o di piccole e
frammentate stelle.
Ma il destino giocava un’altra partita. Partita parallela a
quella che giocavano loro. Una parallela pronta a mutare, in un solo momento,
tutte le regole della geometria solida. Pronta ad intersecarsi in una retta e
da quella prendere le sembianze di un nodo.
Nodo sottomesso alla forma del loro
sguardo, nel giorno in cui si videro, per la prima volta. Fu allora che avvenne
la metamorfosi della crisalide.
Una metamorfosi di lava e terremoto che alterò
ogni singola cellula dei loro corpi. Corpi che, in una sinuosa danza dei sensi,
si fusero per costruire una dimensione parallela, carica di attimi, momenti.
Gocce di elemosinato tempo ma vissuto in maniera così intensa da diventare una
storia: la storia.
Da allora, in quella storia, ogni giorno, si incarnava la
meraviglia di volersi, di appartenersi, di essere di due una persona sola.
Prendendo consapevolezza di essersi veramente appartenuti in un’altra vita. Vita
che diventava un miraggio quando ognuno ritornava, a malincuore, nei propri
angoli d’infelice mondo. Eppure, quando bevevano dal calice del loro amore,
avveniva, straordinario ed intenso, il connubio delle anime e miriadi di
lucciole si incendiavano negli occhi.
In quella tormenta d’istinto e desiderio si
prendevano e si incastravano, prima nei gangli della mente, poi nello sguardo
fino ad abbandonarsi, con estrema voluttà, nelle voglie più nascoste
nell’iride.
Iride che parlava, sottovoce, il loro linguaggio segreto anche se
le loro bocche rimanevano serrate ed ammutolite, in un bacio profondo e
prolungato. Eppure, quando l’odio antico dei rispettivi avi decise che era
giunto il tempo di mettere fine a quel sogno, avvenne una trasformazione: al
rovescio. La farfalla ritornò crisalide, le ali si arrotolarono nel guscio
appiccicoso, rimanendo intrappolata in uno spazio diventato oramai sempre più
stretto, quasi asfissiante. La genesi di una tragedia.
Così pian piano iniziò a
farsi strada la consapevolezza. La consapevolezza, una volta divisi, di non essere
mai più se stessi. Di non trovare l’altra metà della mela in altri volti. Di
non legarsi indissolubilmente in altri abbracci. Di non riprendere la forma di quello
che erano un tempo in altri corpi. Una lotta finita, ancora prima di iniziare, contro
“l’impossibile”. Perché era solo in quell’amore che ognuno ritrovava la
“possibilità” di vivere ancora. Fu così che morì la speranza. E con la speranza
vennero assassinati i corpi, per loro stessa mano. Corpi legati tristemente al
casato di quei nomi: Montecchi e Capuleti.