martedì 2 settembre 2025

A Roma si costruisce un ponte tra Italia e Cina fatto di poesia

La città eterna è pronta ad accogliere un incontro inedito, un viaggio poetico che intreccerà due civiltà millenarie. Sta per alzarsi il sipario sul primo Festival di poesia italo-cinese, un appuntamento che promette di trasformare Roma in un crocevia di parole, immagini e visioni condivise. L’iniziativa nasce dal desiderio di unire, attraverso i versi, due tradizioni letterarie profondamente diverse ma accomunate dalla stessa tensione verso la bellezza e il senso. La poesia diventa così ponte, soglia, invito a guardare l’altro con occhi nuovi. 

Fulcro del Festival saranno due raccolte gemelle: una selezione di 38 poeti cinesi contemporanei, presentata per la prima volta in lingua italiana; e la più vasta antologia di poeti italiani contemporanei mai tradotta in cinese. Due mondi che si riflettono, si studiano, si riscoprono attraverso la lente preziosa della traduzione. Il programma prevede letture bilingui, dialoghi tra poeti, traduttori e critici, momenti di confronto sul ruolo della letteratura come strumento di diplomazia culturale. Non mancheranno contributi di istituzioni, case editrici e associazioni letterarie dei due Paesi, a testimonianza di un impegno condiviso che va oltre i confini nazionali.

Vediamo in dettaglio chi sarà presente e cosa si presenterà.

Hu Xian, classe 1966, poeta, saggista e direttore dello «Yangtze River Poetry Journal», uno degli autori più rappresentativi e autorevoli della poesia cinese contemporanea - sarà tra i protagonisti e ospiti della giornata. 

Al Festival di poesia italo-cinese - promosso da Delufa Press e Jiangsu Phoenix Literature and Art Publishing, in collaborazione con ASIC (Associazione Sviluppo Italia Cina), ISMEO (Istituto internazionale di Studi sul Mediterraneo e l’Oriente), Hollywood Roma Tutto sul Cinema, Radio Rock, Sinaforum e Oryza - parteciperanno anche altri poeti, autori, traduttori, artisti e curatori del dialogo tra Italia e Cina tra i quali Irma Bacci, Stefano Bottero, Cai Chongda, Federica D’Amato, Claudio Damiani, Emanuele Dattilo, Maurizio Gregorini, Iago, Lin Bai, Matteo Marchesini, Claudio Marrucci, Marco Masciovecchio, Renzo Paris, Elio Pecora, Gilda Policastro, Rocco Salvia, Gino Scartaghiande, Shu Cai, Gabriella Sica, Maurizio Soldini, Brunello Tirozzi, Antonio Veneziani e Wu Yiqin. 

  • La prima Antologia di poesia cinese contemporanea, curata da Francesco De Luca e Jiangsu Phoenix Literature and Art Publishing, con la prefazione di Shu Cai (e le traduzioni di  De Luca stesso), è pubblicata in Italia da Delufa Press [raccoglie una quarantina di voci della poesia cinese contemporanea, molte delle quali per la prima volta in lingua italiana].
  • La seconda, invece, consente la penetrazione in Cina della nostra produzione contemporanea con un’ampia selezione di testi di trenta poeti italiani contemporanei mai tradotti in lingua cinese, è l’Antologia di poesia italiana contemporanea, curata sempre da Francesco De Luca con la Prefazione di Renzo Paris e le traduzioni dall'italiano in cinese di Liu Guopeng, pubblicata in Cina da Jiangsu Phoenix Literature and Art Publishing.

E dunque Roma, con il suo respiro universale, diventa così il palcoscenico ideale per un incontro che è molto più di un festival. Si tratta di un potente atto di ascolto reciproco, un patto di amicizia, un ponte che si costruisce attraverso la parola poetica. In un tempo che sembra frammentare e dividere, il Festival si pone come risposta: l’arte dei versi come bussola, il suono delle lingue come carezza, la traduzione come atto d'amore e fratellanza.


domenica 31 agosto 2025

Dal cuore dell’Irpinia alle sale operatorie: il prof. Antonio Giorgio e la lotta ai tumori epatici


A cura di Gerardo Vespucci

I tumori epatici: 40 anni di cura, mediante l’alcolizzazione eco guidata, e il ruolo determinante del ‘nostro’ dott. prof. Antonio Giorgio (Tonino). 

La medicina, è noto, ha accompagnato la civiltà dell’uomo, nel senso che da subito l’umanità ha cercato in ogni modo di liberarsi delle malattie, del dolore, delle ferite…della paura della morte: del resto, è molto più facile, più naturale, ammalarsi, piuttosto che stare bene! 

Le prime civiltà hanno provato con ogni mezzo a superare il malessere, a provocare la guarigione, per tentativi ed errori, trasmettendo alle generazioni successive le esperienze acquisite, con erbe, con pratiche chirurgiche e simboliche, fino a sconfinare nella magia e nelle ritualità religiose: è di questi mesi la notizia che persino i Bonobi, le scimmie più simili a noi, sono in grado di curare le ferite con impacchi di erbe particolari, intrise della propria saliva. 

In ogni comunità del passato, non mancavano mai i guaritori, figure superiori, sciamaniche, ossia in grado di fare da intermediazione tra l’ultramondo divino e la realtà, tra gli spiriti ed il malato, al fine di guarirlo: nella stessa Grecia di Ippocrate, erano presenti i templi dedicati al Dio della medicina, Asclepio, affinché, invocandolo, le pratiche mediche avessero successo, sebbene la medicina ippocratica avesse già acquisito una sequenza medica rigorosa, dalla diagnosi alla prognosi, fino alla determinazione delle cause ambientali, come l’aria e l’acqua. 

Come per altre scienze, anche per la medicina la civiltà dell’Occidente è debitrice alla Grecia, e, non a caso, è Aristotele a codificare la medicina come tekné, ossia arte, una forma elevata di conoscenza, sebbene non proprio come la filosofia, perché, come afferma nel libro I della Metafisica, «[…] l’esperienza è conoscenza dei particolari, mentre l’arte è conoscenza degli universali. […] gli empirici sanno il puro dato di fatto, ma non il perché di esso; invece, gli altri conoscono il perché e la causa»

Coerentemente, ne deriva, come egli ricorda, che il medico cura il malato, la Medicina si occupa della malattia: e così da allora, la Medicina ha assunto sempre più le caratteristiche di una scienza rigorosa, non cercando fuori dai propri principi la spiegazione dei fenomeni patologici, i rimedi ed i processi verso le guarigioni.

Oggi, in vero, siamo di fronte ad una super scienza, poiché nella Medicina moderna trovano un punto di applicazione tutte le grandi discipline, dalla biologia dei processi molecolari alla chimica farmaceutica, dalla fisica delle particelle alla matematica statistica, dalla informatica delle strumentazioni curative all’Intelligenza artificiale, ormai parte integrante per la diagnosi e terapia.

Eppure: di fronte a scoperte di cure sempre più avanzate e straordinarie, lo stesso linguaggio tradisce le origini di questa strana scienza: quante volte sentiamo dire: è un vero miracolo, è sensazionale, c’è finalmente una cura miracolosa.

Questo accade, purtroppo, perché delle scoperte non si conoscono i processi storici, lo svolgimento nel tempo, il lavoro spesso oscuro di decine di scienziati impegnati nella ricerca e di tanti medici clinici, di cui si ignorano i nomi, che quotidianamente lavorano negli ospedali.

Diciamo che la grande cenerentola che produce ignoranza – tanto più pericolosa oggi con i social - è la Storia della medicina, ed è un guaio, perché – per dirla con Imre Lakàtos, filosofo della scienza e matematico – la Scienza senza la Storia è cieca!  

Ed è di una storia in particolare che intendiamo parlare, anche perché vede tra i protagonisti, in assoluto, uno dei nostri figli migliori, il dott. Prof. Antonio Giorgio (nostri, ovvero di Sant’Andrea di Conza, dove ebbe i natali nel 1948): è la storia dell’alcolizzazione dei tumori epatici che, in 40 anni di applicazione, ha determinato la maggiore sopravvivenza di decine di migliaia di ammalati, migliorandone la qualità della vita in maniera straordinaria ed assoluta.

Andiamo con ordine e partiamo dal problema, ossia il tumore epatico. Abbiamo chiesto al prof. Giorgio di riassumerne i tratti essenziali ed ecco la sua lezione: 

«L’HCC – Hepato Cellular Carcinoma - è il tumore maligno più frequente del fegato ed è al quinto posto tra i tumori maligni al mondo. È più frequente nei maschi e, caratteristicamente, insorge sulla cirrosi epatica. Rappresenta inoltre la principale causa di morte nei cirrotici. Le cause principali della sua insorgenza sono l‘infezione cronica da virus dell’epatite B, dell’epatite C e abuso di alcool. Ancora oggi, l’HCC è una malattia ad esito infausto a meno che non si intervenga con una di queste tecniche: il trapianto di fegato, che cura sia il tumore che la cirrosi; l‘asportazione chirurgica (cosiddetta resezione epatica) e le cosiddette terapie ablative ( vale a dire l ‘introduzione all’interno del tumore del fegato di un ago per via percutanea – senza aprire l’addome del paziente - di sostanze chimiche come l’alcool assoluto sterile al 95% , sotto la guida dell’ecografia, la cosiddetta alcolizzazione e che è stata introdotta per prima) o trattamenti fisici ( sempre senza aprire l’addome che distruggono il tumore come il calore (radiofrequenza e microonde)» 

Tonino -come lo chiamano gli amici del paese - ha ricordato che le terapie ablative fortunatamente si sono imposte negli ultimi 40 anni perché, purtroppo, il numero di fegati necessari per i trapianti è superiore alle donazioni, mentre l’intervento chirurgico può essere effettuato solo nel 20-30 % dei casi, a causa della cirrosi sottostante l’HCC. 

Come già detto, il dott. Giorgio si è imposto nel mondo della medicina grazie proprio alle tecniche ablative e quindi gli abbiamo chiesto come ciò sia accaduto, anche in considerazione del fatto che lui, poco più che trentenne, sul finire degli anni Settanta, era già operativo al famoso Cotugno di Napoli, ma pur sempre in una parte d’Italia non proprio d’avanguardia per la medicina.

Ed ecco il suo racconto:

«Ho sentito parlare della possibilità di introdurre alcool assoluto in un tumore maligno di fegato a marzo 1985 – 40 anni fa - a Piacenza in un congresso di ecointerventistica da parte del primo italiano, Tito Livraghi, radiologo di un oscuro ospedale della provincia milanese sito a Vimercate. Io non avevo mai visto tale tecnica né mai assistito dal vivo all’introduzione dell’ago all’ interno del fegato, sotto guida ecografica, e della successiva introduzione dell’alcol all’interno dell’HCC, ma appena tornato a Napoli, trattai subito ‘senza sapere né leggere né scrivere’ il primo paziente che manco a dirlo si chiamava Esposito: visse tre anni mentre la sopravvivenza di allora era di appena sei mesi!»

Conosco bene Tonino, la sua determinazione ed il suo entusiasmo, ma viene spontaneo chiedergli come abbia potuto affrontare con fiducia e sicurezza tanti malati gravi, rischiando l’insuccesso, ed anche confrontarsi con il top della medicina mondiale: ed ecco le sue parole:

«Anch’io spesso mi chiedo chi mi abbia dato la forza. Mi ha mosso sicuramente quello spirito di incosciente coraggio giovanile che spinge ad osare e andare sempre un po’ più avanti. Credo però che mi abbia anche sollecitato il dolore e l’angoscia che vedevo nei pazienti cirrotici che in altissimo numero afferivano all’Ospedale Cotugno e che, già allora, erano costretti – altrimenti - alla cosiddetta migrazione sanitaria, che in quei tempi era verso l’Ospedale Paul Brousse di Parigi. In più, vi era la grande passione che avevo e tuttora ho nell’ ecografia che è stata una vera grande rivoluzione nella medicina degli ultimi 50 anni (appena festeggiati a maggio a Bologna, sede dell’ecografia clinica italiana), e di cui ho avuto modo di diffondere le tecniche di terapia percutanea eco guidata, anche con la pubblicazione, nei primi anni Novanta, di alcuni manuali specifici, utilizzati da centinaia di medici nei corsi di formazione da noi organizzati.»

Con orgoglio, Tonino ricorda gli anni più belli, in cui i pazienti, sempre in numero maggiore, arrivavano al Cotugno da tutte le parti d’Italia, sofferenti ma fiduciosi; di essi, ovviamente, molti erano meridionali, così che il centro di Napoli divenne l’unico riferimento fino a Roma e oltre: bisognava andare al di sopra della linea gotica per avere le stesse prestazioni di successo, ed infatti, Tito Livraghi nel 1986 pubblicò su Radiology i primi 13 casi di guarigione.

La tecnica si impose subito in tutto il mondo, tanto da essere ripresa da quotidiani di altri paesi come Le Monde, El Pais ed altri. Ad essere precisi, però, il primo vero inventore della tecnica dell’alcolizzazione era stato un medico giapponese, il prof Sugiura, anche perché in Giappone gli HCC erano molto più frequenti che da noi.  

Addirittura, Tonino ha ricordato che, in uno dei tanti congressi annuali internazionali di Chicago, incontrò un professore giapponese che lui conosceva, che a un certo punto, chiacchierando, chiese al suo allievo: “ma nel 1978 quanti pazienti avevamo già trattato?”

Il dott. Sugiura aveva reso pubblica la tecnica nel 1983, ma in giapponese, che ovviamente nessuno leggeva o capiva e quindi il merito fu attribuito tutto a Livraghi. 

Il prof. Giorgio non nasconde la propria soddisfazione nel ricordare che i principali protagonisti e i competitori dei giapponesi erano proprio loro, quei giovani che avevano osato sfidare le accademie, imponendo l’alcolizzazione immediatamente, anche surclassando la chirurgia - che era l’unica tecnica curativa - poiché essa era gravata da mortalità e complicanze elevate che arrivavano fino al 45 per cento e che poteva essere praticata solo in pochissimi casi, perché i pazienti erano tutti cirrotici . 

Tonino aggiunge: «Lo spirito, (vale a dire l’alcool etilico puro, come lo chiamo io anche nei congressi internazionali) invece aveva una mortalità dello 0,6 per cento e una sopravvivenza uguale a quella della chirurgia con la differenza che i chirurghi dovevano selezionare moltissimo i loro pazienti. Mettiamo, poi, che la tecnica era ambulatoriale! Non so se ci si rende conto: il paziente veniva in ospedale con un nodulo di 3 cm, e con solo due, tre sedute ambulatoriali era finita, tornava alla vita normale!»

Già nel 1995 Livraghi, Giorgio ed altri (Radiology, 1995) pubblicarono i risultati della sopravvivenza a 5 anni:

«Venne fuori che tale valore era pari al 50% dei pazienti trattati (un grande risultato!): era esattamente uguale a quelli ottenuti con la chirurgia, ma con la differenza che essi (i chirurghi) dovevano effettuare una selezione fortissima, sempre con mortalità e complicanze come detto sopra, mentre noi operavamo in ambulatorio!»

A fronte di simili evidenze, i pazienti, sia per Giorgio che per Livraghi, divennero migliaia; Giorgio, col suo gruppo al Cotugno, effettuava più di 900 sedute l’anno!

Sempre nel 1995, Livraghi coordinò uno studio multicentrico a livello nazionale, analizzando i risultati su 796 pazienti con epatocarcinoma su cirrosi, trattati con alcolizzazione percutanea eco guidata.

Giorgio ricorda soddisfatto quei risultati incredibili, perché: «questa tecnica, non solo aveva gli stessi risultati a cinque anni della chirurgia, che ancora veniva considerata la tecnica di elezione per il trattamento dell’HCC, ma presentava un numero nettamente minore di complicanze e di mortalità, comparata con la resezione chirurgica.  In più, ricordiamo che la resezione chirurgica era riservata a pazienti nettamente selezionati (di fatto, meno del 20% dei pazienti con HCC su cirrosi, mentre la nostra tecnica veniva applicata anche a pazienti con ridotta funzionalità epatica. L'altro dato che venne chiaramente fuori fu che, ovviamente, più era piccolo il nodulo maligno (< 3 cm) e più migliorava la sopravvivenza.»

Ulteriore conferma della bontà di questa tecnica, giunse dopo pochissimo tempo con un altro studio di sondaggio delle complicanze dell’alcolizzazione su 1066 pazienti. Lo studio, coordinato dai medici di Piacenza, dimostrò che sui mille e passa pazienti alcolizzati si era verificato un solo decesso: praticamente un successo totale, specie se comparato con l’alta mortalità insita nell’intervento chirurgico.

A questo punto niente più poteva precludere il successo dell’alcolizzazione: essa si diffuse in tutto il mondo con una rapidità impressionante e migliaia e migliaia di pazienti vennero trattati e curati. Addirittura, nell’anno 2000 a Barcellona giunse il riconoscimento ufficiale: durante la Consensus Conference (vale adire la riunione di esperti per indicare le linee guida del management dell’HCC) la PEI venne indicata come intervento curativo dell’HCC su cirrosi, al pari dell’intervento chirurgico e del trapianto di fegato

Fu, per noi, un grandissimo riconoscimento.

Il grande successo dell’alcolizzazione aprì le porte ad una serie di ulteriori ricerche per migliorare le tecniche ablative -cioè come far sì che il nodulo tumorale venisse “cotto” con il calore. Per prima arrivò la radiofrequenza, ossia la tecnica che consisteva nell’introduzione nel tumore, sempre sotto guida ecografica, di un ago, collegato ad un generatore di onde a radiofrequenza, e la cui punta si riscaldava a cento gradi. Successivamente si è inserita l’ablazione con le microonde, una tecnica di derivazione cinese, che aveva una potenza maggiore della radiofrequenza: questa metodica è capace di cuocere (ablare) anche piccoli noduli vicini alla periferia del tumore (cosiddetti noduli satelliti), che l’alcool non raggiunge; le microonde, a loro volta, sono in grado di indurre la distruzione di noduli di grosse dimensioni, anche in una sola seduta. Oltre che per l’HCC su cirrosi, questa metodica andava bene anche per il trattamento delle metastasi epatiche.

A queste tre tecniche principali, ci dice il dott. Giorgio, «si è aggiunta infine, un’ultima metodica chiamata Elettroporazione Irreversibile (IRE) che utilizza il passaggio della corrente elettrica tra due o più aghi, sempre sotto la guida dell’ecografia: è quella che ultimamente utilizzo meglio, ma è più costosa e con indicazioni estremamente particolari. Di tutte queste metodiche usate per l’ablazione percutanea guidata dall’ecografia dei tumori del fegato, i mie gruppi, prima all’Ospedale Cotugno di Napoli, che sicuramente ha rappresentato l’eccellenza italiana e internazionale per l’alcolizzazione, e poi, nelle altre cliniche, una volta lasciato l’Ospedale , hanno continuato ad eccellere in queste tecniche con centinaia e centinaia di pazienti trattati: basti dire che i dati pubblicati da me e dal mio gruppo, nel 2019, sull’Elettroporazione Irreversibile, rappresentano ancora la casistica più numerosa in Italia».

Gli ho chiesto se ci fosse ancora in questi anni una grande frequenza di tumori epatici o malattie gravi del fegato, considerato che negli ultimi tempi, grazie alla prevenzione con la vaccinazione per l’epatite B ed al trattamento con i nuovi farmaci antivirali per l’epatite C, si sarebbe dovuto limitarne i casi. 

Ecco la sua risposta: «una nuova patologia, chiamata Steatosi Epatica non Alcolica (NAFLD), ha preso il posto delle infezioni virali come causa di cirrosi ed HCC. L ‘aumento infatti del diabete, delle persone sovrappeso e degli obesi ha portato alla cosiddetta sindrome metabolica (diabete, ipercolesterolemia, obesità ,ipertensione arteriosa , malattie cardiovascolari) per cui il termine NAFLD è stato cambiato in MASLD vale a dire Metabolic-disfuntion assiociatde steatotic liver disease che significa alterazioni metaboliche –diabete ecc. come detto prima- in pazienti non bevitori e comporta un accumulo di grasso nel fegato , la cosiddetta steatosi epatica, con gravi insufficienze funzionali del fegato.»

Siamo giunti alla fine di questo notevole excursus ed un sentimento mi assale e mi preme esprimere: stima infinita ed immensa gratitudine verso questo grande medico che ancora oggi, da alcuni anni in pensione, trova la sua ragione di vita nel sentirsi utile ai pazienti, che quasi ogni giorno aiuta a vivere, operando in alcune cliniche della Campania.

Se fosse vissuto in altra epoca ed altro luogo, al dott. prof. Antonio Giorgio sarebbero stati tributati lodi ed onori, ma i tempi oscuri, in cui ci tocca vivere, sono pieni di mediocrità e questo scatto di riconoscenza non può certo accadere. Ma, vien voglia di dire con gli antichi, nihil novum sub sole, e lo stesso Leopardi, due secoli fa, ormai, ci aveva ammoniti con l’esergo de La Ginestra: Gli uomini preferirono le tenebre alla luce! 

mercoledì 27 agosto 2025

BiblioIlde: "Io che ti ho voluto così bene" di Roberta Recchia

 


A cura di Ilde Rampino

Amore e dolore che si fondono in una vicenda che crea una frattura nell’anima che rimarrà latente per tantissimo tempo.

Nell’estate dei suoi dieci anni, Luca fu colto da una folgorazione e venerava Betta da lontano, un amore che giudicava senza speranza, la rincorreva, affidandosi ai piccoli segni che lei gli rivolgeva: le aveva comprato un regalo, un braccialetto colorato della fortuna che lei indossò e rappresentò un simbolo del suo amore e poi della sua disperazione. Quando non la vide più tornare a Torre Domizia, diventò sempre più ombroso, gli mancava molto e ricordava il “grazie” che gli aveva detto, in silenzio, muovendo solo le labbra. La scoperta della sua morte lo fa sprofondare in un  dolore muto, si svegliava di soprassalto di notte e aveva la sensazione di soffocare, mentre la tristezza gli galleggiava dentro.

A quindici anni la sua vita si trasforma improvvisamente ed è costretto ad andarsene e viene accolto dallo zio Umberto, in cui ritrova il senso di famiglia che aveva perduto, nonostante degli inizi difficili. Il crimine di Maurizio aveva travolto, come una tempesta infinita,  tutta la loro esistenza, come se avesse disperso semi velenosi lungo il percorso della loro quotidianità. Luca si sente profondamente solo, nonostante l’affetto che lo circonda, sente che il rapporto con i suoi genitori, a causa del gesto di Maurizio, è stato distrutto e reso sfilacciato dalla sofferenza, avverte la freddezza di sua madre, anche se si rende conto che è dettata dal dolore. Comincia a studiare quasi con rabbia e per allontanare i pensieri,”arrancava in una vita sospesa”, ma la vita lo pone davanti a prove ancora più difficili e alla tensione e alla paura che prova sua zia Mara nei suoi confronti. Suo zio Umberto si trasferisce con lui per qualche tempo dai padri Oblati: Luca pensava alla sua casa che non c’era più, alla sua vita di prima completamente distrutta di cui rimaneva solo cenere, va a trovare sua madre Lilia in ospedale e incontra la madre di Betta, distrutta dal dolore, ma che si preoccupa della sofferenza degli altri, rivelando un grande cuore. Le parole della madre: ”il gioco lo hai vinto tu” rappresentano per lui una pietra miliare, da cui poter rinascere e recuperare la fiducia in se stesso che aveva perduto, nascosta dal dolore e dal senso di colpa che nonostante tutto, provava. Luca diventa un’altra persona, riscatta il suo passato e riesce a prendersi cura delle cugine in una situazione complicata, conquistando la riconoscenza della zia Mara attraverso le sue parole:  “tua madre sarebbe molto fiera di te”.

Il cambiamento interiore di Luca che, nonostante il dolore e le difficoltà della vita, è riuscito a trovare la propria strada, ha delle ripercussioni positive anche nei confronti di suo padre Tommaso, che si è chiuso in se stesso e ha difficoltà nel rapporto con gli altri. Si è rifugiato in una vecchia casa in un bosco e vive in modo semplice e solitario, imparava a memoria gli orari dei treni per ritrovare un tempo dimenticato, finchè, un giorno che Luca è andato a trovarlo, trovano un cane, Alma, che farà compagnia al padre mentre egli tornerà dagli zii e rappresenterà qualcosa di importante per lui.

Pian piano è come se il treno della vita ritrovasse i binari del tempo e raddrizzasse la rotta per recuperare gli affetti perduti, perché Luca accettasse, senza disperazione la morte del padre, mentre raccoglieva le more per la marmellata per Stella, la sua piccola nipote, riprendesse le fila, anche se a fatica, del rapporto interrotto tanti anni prima con suo fratello Maurizio, permettendogli di andare al funerale del padre.  Quella vecchia radiolina da cui aveva appreso la terribile notizia gli fa esplodere dentro una rabbia feroce: Luca era arrivato ad un passo dall’ucciderlo, ma improvvisamente aveva capito l’impossibilità dell’odio e che dalla sofferenza si poteva guarire.”La caduta non era altro che lo sgambetto della vita”, ci si doveva fermare e poi si doveva riprendere la corsa senza pesi sul cuore.


martedì 26 agosto 2025

Po(et)scards from Palestine: Samar Al Ghussein


Samar Al Ghussein - scrittrice e poetessa di Gaza - nei suoi testi c’è amore, speranza e la bellezza nascosta nella tragedia. Le sue opere sono state pubblicate in diverse testate come la rivista MPT e il quotidiano Al-Ayyam Al-Arabiya.

"Scrivo perché vedo la poesia come un modo per rendere immortali le nostre vite."




Due anni —
e questo luogo è un cimitero.
I morti sopra la terra,
i morti sotto la terra,
e gli ulivi
ci danno olio rosso,
mangiato dai figli degli uccisi,
irrigato dal loro sangue.

Due anni —
e questo luogo è un cimitero.
Così getto sulla città
un grande sudario.
In ogni metro, qualcuno dorme;
in ogni metro, un cadavere.

E il mare li piange
sulla sua sacra sponda,
accumulati in massacri.

Due anni —
e le bocche dei profeti
sono spine tristi.
La città non è mai stata libera
dal pianto,
dai templi,
dalla catastrofe.

Due anni —
e le nostre anime nella città
sono numeri su un dado
lanciato ogni giorno dal massacro,
che sceglie a caso
e poi miete.



venerdì 22 agosto 2025

Vera Mocella e "l'epifania del nascosto" - di Claudia Iandolo


E se anche la materia fosse spirito? Se anche la materia fosse luce? Il lavoro di Vera Mocella si apre con una domanda, declinata come fossero due, che segna anche una pista interpretativa. Se anche la materia è spirito e luce, la vita stessa non sarebbe che un continuum in cui non esiste separazione alcuna. Nessuna lontananza tra il qui e l’altrove, nessuna distinzione tra il finito e l’infinito. Il respiro di ogni creatura è un solo respiro, l’alito di un mistero che tutto avvolge e per cui tutto pulsa.

L’autrice spiazza il lettore fin dall’inizio con un’opera che è al tempo stesso una confessione e un dialogo. L’alternanza di prosa e poesia è solo apparente perché tutto il lavoro è poetico nel senso alto del termine. Ogni parola, ogni pausa determinano un rimando, un’eco precisa che risuonano di bellezza nella profondità dell’anima. Si tratta di una sorta di epifania del nascosto in cui, appunto, il mistero dell’esistenza si illumina e si rivela perfino attraverso il dolore e le lagrime. Mistero che può essere solo intuito e mai spiegato. La confessione è confessione di una mancanza fisica che coinvolge in maniera totalizzante. Dell’altro, di chi si ama, manca tutto: le braccia muscolose e forti, le labbra profumate di muschio, gli occhi di lacrime e gioia, i passi che ogni amante aspetta trepidante. Siamo di fronte ad una scrittura squisitamente femminile e mistica. Come Margherita Porete e Angela da Foligno, Vera Mocella usa le parole per abbattere limiti e convenzioni. Il Tu al quale si rivolge ama e tormenta. Abbaglia con la sua bellezza e devasta come carta vetrata sul cuore. Non usa parole e quelle dell’amante, forse, non lo raggiungono. È capriccioso, conduce in luoghi spaventosi e sorprendenti.

Ma a volte è lui a farsi condurre. Ecco lo scandalo. Le mistiche non hanno ritegno, pensano a Dio come a un amante, lo sentono nel corpo, ne fanno una questione di baci e di ansimi e nel frattempo realizzano in pieno lo sconcerto e il turbamento della comunione con l’Altro. Separazione e mancanza non sono che apparenze che si perdono nella finzione del tempo, giacché ogni tempo non può che essere l’hic et nunc in cui l’Amore rivela se stesso. Per sempre. In eterno. L’Amore esige che gli amanti si denudino, che dichiarino apertamente sentimenti ed intenzioni. Esige, come nell’opera di Porete, Lo specchio delle anime semplici, che si oltrepassi l’amore fino all’annullamento del sé e allo schianto. Ed è allora che anche l’ultima distanza si colma, che non esiste nessuna separatezza tra i due amanti. L’abbraccio tra il creatore e la creatura è il senso della vita stessa. Spazio e tempo non esistono e non esiste la morte. La creatura si accorge, finalmente, di nuotare in un Tutto. Riconoscendo l’Altro ha finalmente riconosciuto se stessa. Vera Mocella incanta con una scrittura elegante e curata in cui s’incastonano riferimenti a Wim Wenders, Walt Whitman e alla Bibbia. Il dettato terso è però densissimo. Ogni rigo rincorre il respiro dell’Anima Mundi e del suo segreto contenuto in ogni singola cellula di un mistero chiamato Vita.

L’immagine che abbiamo creato
sarà l’immagine
che accompagnerà la mia morte.
In questa immagine avrò vissuto.
Solo lo stupore su di noi.
Lo stupore dell’uomo
e della donna fatto di me, un uomo.
Io ora so ciò che nessun angelo sa.

Wim Wenders
da Il cielo sopra Berlino


Una poesia estratta

Risorge sempre l’Amore


Si decanta il passato in vivide immagini
tasselli di passione, rimpianti, angosce
adesso annegano lontano da noi.
Quello che ci unì non fu amore
quello che ci unì non fu desiderio
fu magma incandescente di passione.
Ciò che ci unirà non sarà la morte,
ma l’eterna speranza di essere insieme,
il desiderio incontrollato, insaziabile di amore
il desiderio incontrastato di Bene.
La felicità fanciulla
che si dissolse in quell’attimo
in cui spezzai l’incanto.
Non sapevo amore, le cose che ora so,
l’Amore non si spezza, l’Amore non si uccide,
risorge sempre,
sempre risorge l’intatto Amore.


Per ordinare il libro

https://www.rplibri.it/portfolio/in-questa-immagine-avro-vissuto/

BiblioIlde: "Come l'arancio amaro" di Milena Palminteri


A cura di Ilde Rampino

Un segreto che attraversa gli anni e le generazioni: Carlotta percorre i sentieri sconnessi del ricordo di suo padre Carlo, morto lo stesso giorno in cui lei era nata, attraverso le sue cose, i luoghi, mentre sente che una verità sconosciuta le brucia gli occhi. 

Le protagoniste di questo intenso libro, Sabedda e Nardina sono due facce di una stessa medaglia, che non accettano le imposizioni degli altri e cercano a fatica, ma anche con determinazione, il loro posto in una società che le considera ai margini e le giudica.

Sabedda era “selvaggia”, viveva con suo padre Bartolo e la sua bellezza la rendeva preda dei desideri degli uomini, ma non voleva arrendersi al suo destino, voleva offrire una possibilità a suo figlio, voleva scegliere in un certo senso e alla fine accetta qualcosa di illecito, ma serbando tuttavia la forza di andare avanti. Profonda è la dignità di Sabedda e desiderio di non rinunciare mai veramente a ciò che le appartiene, affidando alle ali della vita ciò che per lei è più chiaro, seguirlo da vicino, senza dire una parola e proteggendolo con il silenzio e l’amore che trasmette. La sua sensibilità nascosta è molto profonda, la sua è una lotta perenne contro i pregiudizi e le prevaricazioni di chi si sente “padrone” e vuole comandare sulla vita degli altri. Sua figlia crescerà come una signora e non dovrà avere paura di niente, perché lei le sarà sempre accanto, anche se da lontano. Il sentimento di odio e di disprezzo che riempie il cuore di Sabedda nei confronti di Stefano è acuito dal suo avvicinarsi a Carlotta, temendo che le farebbe del male, pur non essendo a conoscenza del loro segreto.

Nardina, “sposa senza prole”può considerarsi l’immagine speculare di Sabella, una ragazza divenuta ricca, ma che vive di insicurezze e di rimpianti; sua madre, a causa della sua ambizione e del desiderio di riscatto sociale, l’aveva fatta studiare. Non cede alle pressioni di una famiglia che la disprezza, anche perché non riesce a dare un erede al marito. Il loro matrimonio andava bene, nonostante egli si concedesse qualche scappatella. Nardina prova risentimento nei confronti di sua madre che, per la sua ambizione, la costringe a fare qualcosa che lei non riesce a comprendere, ma accetta e comincia a fingere , sempre di più, fino a costruire una rete di menzogne da cui non è più capace di liberarsi. La sua irrequietezza è la conseguenza della sua inquietudine e della difficoltà, unita al rimpianto, di non riuscire a scegliere la vita che vorrebbe e di amare chi vuole.

L’avvocato don Peppino Calascibetta rappresenta colui che tira le fila delle vicende dei personaggi, nasconde e rivela segreti, protegge coloro che sente vicini per un debito di riconoscenza o per il rimpianto di un amore impossibile e mai rivelato e ormai perduto.  Peppino non vuole dire la verità a Carlotta, sa che si sentirebbe turbata, perché comincia a sospettare qualcosa. 

Carlotta ricorda l’affetto profondo che la legava alla selvaggia Sabedda, la sua bambinaia e il senso di vuoto e di mancanza d’amore che avvertiva accanto a sua madre Nardina: non riusciva ad avere una storia autentica con un uomo, perché il suo “buco d’amore dava tormenti, ma si teneva nascosto”. Approfittava sempre della disponibilità di Sabella: quando improvvisamente se ne era andata, si era accorta di aver perso il suo sussidiario, sentiva che era stata lei e la commuoveva l’idea che avesse voluto portare con sé un po’ di lei. Un ricordo indelebile è quando morì sua madre Nardina:  le aveva indicato una “cartula” con un fiore che si appende al collo dei neonati, senza dirle niente, ma lei aveva capito che era qualcosa di importante. 

Alla fine Sabedda aveva deciso di andarsene, giurando in cuor suo che Carlotta avrebbe saputo ogni cosa e le scrive una lettera, in cui le rivela la verità : “ti fui madre due volte, al parto e partendo per sempre, sono morta in Sicilia e rinata dall’altra parte del mare”. Le consiglia di farsi ”albero di arancio amaro, con le spine e i fiori che hanno un’essenza rara e preziosa che altri fiori, più nobili, non hanno, attraverso l’innesto che sempre comporta tagli profondi, con il tarocco dolcissimo che ne era cresciuto”, mentre le insegna che il profumo del suo fiore bianco è quello della libertà sui cui passi dovrà sempre procedere: questa sarà l’eredità che le trasmette.


martedì 29 luglio 2025

The Moonlight's Verses - Mariateresa Bari

A cura di Giuseppina Manganelli


ARCHAEOLOGY OF A LOOK

I nourish myself with the verb delve

that drives out the soul’s tweets

buried in the land of absence.

Furious hands seek

the shards of a presence.

Strayed, the heart

heads toward the world.

And it begs for a hunk of light.


ARCHEOLOGIA DI UNO SGUARDO

 Mi nutro del verbo scavare

che snida i cinguettii dell'anima

sepolti nella terra dell'assenza.

Furiose mani cercano

i cocci di una presenza.

Randagio il cuore

s'incammina per il mondo.

E mendica un tozzo di luce.


lunedì 28 luglio 2025

Il loro grido è la nostra voce: Monopoli si veste di poesia per Gaza


Si è svolta venerdì 18 luglio nel chiostro del Palazzo San Martino di Monopoli “Il loro grido è la nostra voce”, una serata culturale dedicata a Gaza contrassegnata da testimonianze indelebili, arte come forma di resistenza, riflessioni profonde sullo sterminio in atto in Palestina, ma anche sul nostro diritto di dissenso civile da difendere con le unghie e coi denti. Ampia e sentita la partecipazione del pubblico, coinvolto magistralmente dalle associazioni e realtà del territorio che hanno attivamente sostenuto la serata, coordinate da Luca Crastolla e Lucia Cupertino, artefici di questa iniziativa e moderatori della serata: Alma Terra (Mola), Amici di San Salvatore (Monopoli), Anpi (Monopoli), Brigata Poeti Rivoluzionari (Bari), Caffè letterario Monopoli (Monopoli), Con.Fusione (Polignano), Donne in Nero (Monopoli), Emergency (Valle d’Itria), Libreria Minopolis (Monopoli), Progetto Donna (Monopoli) Versipelle (Puglia).

La grande protagonista è stata la poesia palestinese, in particolare quella scritta dai dieci poeti racchiusi nel libro “Il loro grido è la mia voce. Poesie da Gaza”, edito da Fazi editore (2025). Al giorno d’oggi in Occidente (in Italia non di meno) la poesia è relegata ad uno spazio di nicchia, con poco seguito e depauperata del suo valore trasformativo insito invece nella parola come creatrice di mondi (words create worlds, si dice in inglese), capace di testimoniare, denunciare, svelare, smascherare, parlare ai cuori. Non come mero esercizio di stile. Proprio questo è quello che hanno fatto cogliere Leonardo Tosti e Antonio Bocchinfuso, due dei tre curatori dell’antologia presenti a Monopoli, così come anche la testimonianza del traduttore dall’arabo delle poesie, il palestinese Nabil Bey Salameh (voce dei Radiodervish), in dialogo con i poeti Luca Crastolla e Lucia Cupertino.

I giornalisti ma anche i poeti vengono uccisi a Gaza per silenziare verità scomode. Con una poesia non cambieremo il mondo, ma potremo forse renderlo un luogo in cui metterci in ascolto della realtà sociale e dell’individuo di un tempo storico, questo è stato l’invito dei brillanti curatori. La poesia a Gaza ha doppiamente senso di esistere e fiorire tra le bombe e i droni che trasformano quella realtà in un paesaggio sonoro dove tutti i suoni della vita, della città e della natura tacciono e dominano il ronzio permanente, le deflagrazioni, il pianto, le urla. Come sostiene Marwan Malhoul, poeta presente nel libro: “Per scrivere una poesia non politica, / devo ascoltare gli uccelli, / e per sentire gli uccelli / bisogna far tacere gli aerei da caccia”.

Estremamente prezioso l’impegno concreto di questa serata culturale, grazie al ricavato di 5 euro per ogni copia del libro “Il loro grido è la mia voce” devoluto ad Emergency, oltre ad una serie di donazioni raccolte grazie ad una serie di banchetti (libri, gastronomia palestinese, artigianato) adibiti nel chiostro del Palazzo San Martino con lo stesso scopo. Nel corso della serata, Carmen Cofano, referente Emergency Valle d’Itria ha spiegato l’impatto di queste donazioni che servono per sostenere una struttura medica presente a Gaza, gestita da Emergency e che riesce ad offrire cure di base in un contesto di malnutrizione, epidemie ed altre malattie che attanagliano la popolazione. 

Nel corso della serata, oltre all’intenso dialogo con i curatori e il traduttore, si sono avvicendati vari lettori e lettrici (uno per ogni realtà sostenitrice della serata) per leggere le biografie e le poesie dei poeti antologizzati. Vogliamo ricordarli: Adriana L’Abbate, Silvana Pasanisi, Sergio Lenoci, Pippo Marzulli, Cosimo Marasciulo, Anna Longano, Gabriele Comes, Lucia Diomede, Caterina Angelini, Bruna De Marinis, Irene Petrosillo.

Cinque quadri del poeta monopolitano Antonio Palmisani hanno arricchito lo spazio scenico del chiostro, opere pittoriche di grande pregio dedicate al dolore della Striscia di Gaza, alle tinte fosche della guerra ma anche, in un balzo di speranza, alla vita che rinasce come auspicio per il futuro della Palestina e dei popoli oppressi nel Mondo. Splendidi anche gli intermezzi musicali della cantante Ilaria Francioso, accompagnata alla chitarra da Dario Ble e Salvatore Santoro. Quasi in chiusura sono entrate in scena con un minuto di silenzio le Donne in nero, che ogni giovedì manifestano il loro sostegno contro il genocidio palestinese a Monopoli. La serata del 18 luglio si è configurata come un mosaico composito e ricco, nato dalla proficua alleanza di realtà del nostro territorio che vogliono continuare a sottolineare in modo congiunto l’urgenza di agire per Gaza e per la nostra libertà d’espressione.











Foto: Giuseppe Mirizzi


domenica 27 luglio 2025

Anatomia del potere: il corpo violato della Storia a Gaza

A cura di Anna Rita Merico

Ora dopo ora, giorno dopo giorno, le notizie che riceviamo da Gaza lasciano sempre più spazio a considerazioni che trascendono, per taluni aspetti, quanto sta accadendo ed invadono il campo delle riflessioni su come-dove stia andando questa diversa declinazione (già avvenuta) del potere. 

Mi interroga una precisa dimensione umana che sta avvenendo dinanzi al come viene letto il corpo della Storia. Un azzardo di immagini compone una visione intorno ad un elemento: la centralità del frammento, la centralità della visione accennata e scheggiata, la centralità -ancora- della perdita dell’intero.

In un’azione violenta accade che non si veda il corpo dell’altra/o nella sua interezza. In un’azione violenta si altera completamente quella vista capace di considerare l’intero. L’intero che viene perso all’interno del campo visivo è quella dimensione nella quale convivono aspetti fisici, esistenziali, emotivi, progettuali. 

Chi agisce l’atto violento vede, nel corpo dell’altra/o, parti staccate sulle quali agire per poter giungere ad una risposta distruttiva capace di soddisfare il proprio bisogno di annullamento e fagocitazione del corpo altrui. 

Mi lascia riflessione questa modalità che, per taluni, sta accadendo: leggere la Storia separandola in schegge, frammenti angolari, una lettura che si auto-priva dell’uso di connettivi e sequenzialità.

Leggere, dunque, il corpo della Storia come si “legge” un corpo da violentare. Prima di giungere alla lettura del dato, accade lo spezzettamento delle parti, la creazione di una “materia spezzettata” che, pur avendo avuto origine da un intero, nega quello stesso intero.

E’ riduzione dello sguardo umano a sguardo incapace di scorgere orizzonte. 

Spezzare il tutto e vedere la singola parte impedendo ad essa ogni possibile connessione. E’ un’operazione che ha, come esito aggiunto, la perdita di significato della parola così come l’abbiamo conosciuta. E’ operazione che svuota e disarticola parola ed etica insieme. E’ operazione che ci obbliga a riparare in territori all’interno dei quali si mostra, ossessivamente, la spiegazione della spiegazione della spiegazione di ciò che era ovvio, di ciò che pareva acquisito e scontato. 

La parola retrocede in spazi separati e mi richiama quanto accadeva alla figura di Cassandra: voce scissa obbligata a rincorrere se stessa nel vuoto in cui chi deteneva potere rispetto a lei, Apollo, l’aveva immersa in assenza di soggettività riconosciuta. 

Cosa ci sta lasciando e cosa sta producendo (tra l’altro) questa esperienza estrema relativa alla cancellazione del popolo palestinese? 

Sicuramente un’emergenza che riguarda la registrazione della diffusione di un’alterazione dell’umano sguardo come dato voluto, creato da un potere che ha necessità di autogenerarsi. L’autogenerazione si mostra come relativa ad inedite clonazioni funzionali per una narrazione fasulla della Storia e delle sue contemporanee cronologie.

Come stanno accadendo e di cosa si stanno nutrendo gli attuali slittamenti di realtà?

“…Il sionismo -il movimento mirante a riportare gli ebrei in Erez Yisrael e a conferire la loro sovranità sul paese- affondava le radici in antichi aneliti millenaristici della tradizione religiosa ebraica, nonché nella fioritura di ideologie nazionaliste tipica dell’Europa dell’Ottocento… Il ritorno a Sion era inteso come un atto sociale e politico che avrebbe messo fine all’inattuale condizione di minoranza oppressa degli ebrei della Diaspora… Nel sionismo l’ideologia precedette ampiamente la realtà…”

Benny Morris, Vittime Storia del conflitto arabo-sionista 1881-2001, traduzione di Stefano Galli, B.U.R. Storia 2004, pg 25-26

“… Si può imparare molto dalle dichiarazioni dei più importanti leader sionisti il cui compito fu, dopo Herzl, di trasformare il suo progetto in azione… Il successo del sionismo non deriva esclusivamente dall’audace progettazione di uno stato futuro… La sua efficacia a superare la resistenza arabo-palestinese sta nel suo essere una politica attenta ai minimi dettagli… la Palestina non era solo la Terra Promessa… ma un territorio specifico con determinate caratteristiche… è a questo che, fin dagli inizi della colonizzazione sionista, gli arabi non sono stati in grado di rispondere… Non si resero conto così di trovarsi di fronte ad una pratica basata sui dettagli… per mezzo della quale un dominio, fino a quel momento immaginario, poteva essere realizzato in Palestina, centimetro per centimetro, passo dopo passo…”

Centrale l’operato di Chaim Weizmann nel tradurre idea e dettato sionista in politica, azione, obiettivi concreti. 

Fonte e cit.: Edward W. Said, La questione palestinese. La tragedia di essere vittima delle vittime, prefazione di Guido Valabrega, trad. di Stefano Chiarini-Antonella Uselli, Gamberetti Editrice, 1995 pg 91-99


BiblioIlde - “La verità è un fuoco" di Agnese Pini


A cura di Ilde Rampino

Un lampo improvviso, che squarcia il velo della menzogna e svela un’immagine, piccole tracce di un segreto mai svelato che spalanca un baratro in cui si può precipitare e ci si immerge in quel buio che si addensa sempre più. E’ questo il momento più difficile e pregnante della vita di Agnese che segna la sua adolescenza in modo rilevante ed imperituro, in cui scopre la verità su suo padre che non riesce ad accettare, per infrangere il silenzio che sigilla la loro intesa e guardarsi allo specchio che riflette un’altra sé che non riconosce più.

Attraverso i meandri del suo cuore ferito vorrebbe cercare di comprendere quali siano stati il suo tormento e il suo dolore, le ragioni celate di una scelta definitiva che ha rivoluzionato la sua vita. Nel profondo disagio ed inquietudine che Agnese prova, percorre tutti i sentieri dell’esistere, aprendo il suo cuore al dottor F. per chiedersi in quale notte dell’anima suo padre abbia sepolto il suo rimpianto, se c’è stato e quanti interrogativi e delusione egli abbia dovuto sperimentare.

Quell’ album rosso, trovato per caso in fondo ad un cassetto, in cui si affollavano   foto della “vita di prima” di suo padre, che la sconvolgono: quei paramenti sacri appartenevano ad un’altra persona che lei non conosceva, ma quella foto l’aveva sempre portata con sé, era il filo che univa le due vite di suo padre, come aveva conservato anche la sua pipa. A quell’età, tredici anni, non avrebbe potuto condividere quel segreto con nessuno, per un senso di profonda vergogna,  il suo mondo “stava stretto dentro poche strade”: era come se l’avesse travolta un uragano, viveva un insieme imprescindibile di emozioni. La sua domanda posta ai suoi genitori avevano creato una distanza e aveva visto il viso di suo padre “spezzarsi e anche il mio”, l’improvvisa solitudine di un padre e di una figlia che si scoprono senza difese, ma, dopo la sua risposta , il dolore era diventato sconfinata tenerezza e l’odio si era trasformato in pena

L’esistenza di suo padre aveva continuato a rappresentare un atto d’amore con l’adozione di due bambini che vivevano in un orfanotrofio in Perù e, durante i suoi numerosi anni di insegnamento, non vi era stato un momento in cui deviasse dalla strada su cui si era incamminato sin da quando era molto giovane e non era mai venuto meno ai valori profondi in cui credeva e che aveva trasmesso agli altri

Agnese aveva bisogno di ripercorrere i luoghi in cui i suoi genitori si erano conosciuti e innamorati , come la biblioteca del seminario di Sarzana in cui aveva studiato da ragazzo  e avrebbe poi insegnato come giovane prete e in quelle stanze ora vuote sembrano riecheggiare i momenti della sua giovinezza, le incertezze, gli sguardi timidi, la ritrosia di lei: il mistero del suo segreto era cresciuto in lei nel silenzio e nelle domande che non aveva mai avuto il coraggio di fare, perché aveva reputato incomprensibile la scelta definitiva di suo padre. “La figlia di Pini” per lei aveva rappresentato una sorta di stigma e non riusciva a perdonarlo, anche se si rendeva conto che egli aveva dovuto lottare contro i pregiudizi di tante persone e che egli, bambino fragile e malaticcio e adolescente inquieto poi, si era trovato ad affrontare una situazione che forse in realtà non aveva scelto consapevolmente e ne aveva sofferto.

Un elemento pregnante della storia che fa riflettere è la foglia che sua madre aveva avuto in dono da bambina e che le aveva regalato: Agnese la conserverà per tutta la vita, perché sentiva che “se avessi perso quella foglia avrei perso una parte di me”, era diventata una sorta di ponte e di legame tra loro due, anche se talvolta lei non riusciva a comprendere la sua ritrosia e la mancanza di ribellione e di spirito combattivo, anche se si rendeva conto che essi avevano avuto coraggio e forza nel portare avanti la loro vita, pur in una condizione così difficile. 

Attraverso un percorso di ricordi, ricostruendo una storia di sentimenti autentici, anche se ottenebrati da sensi di colpa, “la responsabilità intera della vita di un altro, la rinuncia intera della propria” aveva compreso che suo padre aveva sempre obbedito e aveva avuto rispetto della sua vocazione. 

Significative sono le pagine in cui finalmente Agnese riesce a fare un sogno in cui aveva incontrato un venditore di accendini e lo dice al dottor F. : una sorta di scoperta, per illuminare e squarciare il velo della verità e, forse, fare finalmente pace con il proprio passato.