Assolo nel silenzio


Con le mani accarezzava le lenzuola, respirando profondamente. La leggerezza di quel contatto le aveva donato un brivido inaspettato o forse cercato. Il sole aveva completamente inondato tutta la stanza. Ogni cosa sembrava essere di un colore e di una consistenza diversi da quelli della notte appena trascorsa. Vinta da quei raggi, così caldi, rassicuranti, quasi fendenti a staccare il dolore dai nervi, si lasciò andare, con il corpo, in un tuffo all’indietro, come partita per un viaggio che iniziava dal punto in cui era finito. Il suo percorso nelle sensazioni, che solo il pensiero riesce a mettere a fuoco nella mente, iniziò dal desiderio di cancellare quel momento. Vivere solo ciò che era stato prima era la sua ostinazione. Avrebbe cercato il passato, fermandolo un attimo prima delle dieci, come chi desidera l’acqua o almeno un sorso della sua fluida ed appagante consistenza, in una giornata torrida e deserta. Avrebbe camminato senza sosta, scalza, sull’asfalto freddo ed inespressivo, come chi cammina sapendo di dover arrivare ad un punto di riposo con l’ansia nella gola e la stanchezza nelle membra. Si sarebbe lanciata nella battaglia senza pensieri nè pentimenti se solo avesse potuto rimodulare il tempo, semplicemente con un giro di lancette. Così, in quello spazio indifeso, in quella vita che respira e si sente perduta nel presente, goccia a goccia, discendendo dalla fronte sudata, come piccole perle di linfa vitale e salvifica, ritrovò l’immagine che voleva vedere. Ritrovò il profilo dal quale tutto era iniziato e nel quale avrebbe voluto perdersi per sempre. Quasi fulmineo, il pensiero le raffigurò un guizzo di vita ideale e da lì partì l’ispirazione. Le parole iniziarono a scorrere dal cuore verso la mente, come una sorgente vigorosa, fino a trovare l’uscita prediletta: la sua bocca. Un assolo nel silenzio precipitò nella stanza, quasi una preghiera detta sottovoce: “Avrei voluto dirti ciao ancora una volta. Avrei voluto sentire la risposta scritta nel tuo sguardo, senza pensare alle parole che avresti potuto dire. Avrei voluto avvicinare i chilometri, cancellare la distanza, semplicemente tendendo le mani. Unirle alle tue per staccare il dolore dal tuo corpo. Sottomettere la malattia al nostro volersi bene. Ma qui dove mi trovo, dove mi troverò anche domani, dove l’anima richiede liberazione e voli senza confini, qui, nessun colore mi da l’idea dell’arcobaleno, nessun profumo mi inebria, rimanendo impresso nelle narici. Nessun raggio di sole riscalda più di quello del giorno prima. Non vedo più niente di quello che vedevo sino a ieri. Non vedo la mia infanzia né l’adolescenza. Sono in una casa senza pareti e senza tramezzi, senza basi o pilastri profondi, senza un tetto. Sono senza riparo, in questo spazio vuoto, nel rifugio che il destino ha voluto costruirmi, come fosse un mio mondo sommerso. Solo i tuoi occhi scrutano il mio dolore, anche se sono chiusi. Vorrei riuscire a non respirare. Vorrei liberare questi pugni stretti, a metà tra incredulità e disperazione. Vorrei ritornare a quella giornata d’agosto. Quando mi sollevasti da terra e mi stringesti forte. “Riprova ancora” mi discesti, “hai sei anni, sei grande abbastanza per andare senza le rotelle”. Vorrei cadere cento volte ancora solo per lasciarmi prendere in braccio, di nuovo. Ma la disperazione mi scorre nella gola come un veleno che si trangugia in un istante. Rimane immobile nella carne e rende ogni cosa tremendamente diversa da quello che dovrebbe essere. Non posso vivere questo tormento nei giorni a venire, non riesco. Voglio che tu salga di nuovo le scale di casa, che torni in questa stanza e che ti rivesta dei tuoi abiti e dei miei sogni, della mia vita. Voglio sentire l’eco della tua voce. Nel tatto di una tua carezza mi perderei per ore ed ore. Torna, te ne prego. Mai chiederei altro a te se non di starmi accanto, tenermi la mano e promettermi, semplicemente, di sopravvivere ai miei giorni. Ma tu non mi rispondi e mai lo farai.” Fu una voce, improvvisa, ad estrarla da quella utopia. Si alzò dal letto, infilò il maglione, ripassò davanti allo specchio, strappò un cleenex dalla scatola e si strofinò gli occhi e la bocca con inclemenza. Scese le scale senza dare troppa importanza a chi era di sotto ad aspettarla. Arrivata dove era il suo posto, accolse gli amici, la gente. La testa bassa, le mani prese da dieci, venti, cento mani diverse. Ogni stretta era un ritorno ad oggi, al presente, a quello che non avrebbe mai voluto vivere: la morte di suo padre.

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