UN GIORNO VERRO’ A RIPRENDERLA
Coricato sul terreno, quasi come a lasciarsi avvolgersi in
esso, un animale ferito che si riposa e si rinfresca al contatto con l’umida
terra, volse gli occhi verso l’orizzonte. Le mani, quasi fronde spezzate, come
in un impeto di contorsione per il dolore acuto, cercavano di arginare il
sangue che, con una voluttà esasperante, copioso usciva da un piccolo
foro al lato destro del fianco. Aveva lo sguardo di chi sa che, prima o poi,
quella linfa dovrà finire ma, come un innamorato tormentato dal rimorso di
non cedere al ricatto dell’amore non corrisposto, non chiama aiuto, non geme o
urla di dolore. Lì, dove era caduto, nel folto del bosco, aveva sussurrato
qualcosa all’aria del meriggio e solo il ruscello gli aveva ridato l’eco di una
flebile cascata di voci. Attimi impercettibili di sussurri e silenzioso
scorrere, come il tempo che, forse, gli rimaneva da vivere.
Quanto aveva vagato, prima di lasciarsi andare, aveva camminano lento e pesante, come se le sue gambe fossero state pilastri che si strappavano dal terreno ad ogni passo, come orme che si posavano sulla lava fluida, non aveva lasciato traccia del suo percorso. La sua anima inseguita dall’inferno di pochi attimi trascorsi nel mirino del nemico era rimasta costantemente avvinghiata al suo corpo, smussata appena da un piccolo foro di proiettile. Cieca e timorosa non voleva assistere all’uscita e non sarebbe andata via tanto facilmente. Rideva e si lamentava, quasi come in un incessante passo in avanti e corsa all’indietro, ed ogni piccolo attimo di pace era rovinato da improvvisi ed acuti dolori di perdizione. Quel mostro, che aveva intravisto nei cespugli, incedente continuava ad avvicinarsi, aveva il piacere di trasfigurare il volto di sua madre, lo strazio di liquefarsi nei suoi occhi, e piangere come se avesse saputo di non poterla più salutare, neanche un’ultima volta. Un essere deforme con la falce in mano, pronto a rastrellare ogni suo sogno di serenità. Braccia spalancate che tendevono un tranello alla fine, vergine che si tramutava in demone, dono sublime di infamia, rude tenacia di polvere da sparo. Sentiva il sangue colare come da una sorgente feconda, lungo le gambe, defluiva sul terreno e disegnava un letto disfatto di atroce delirio. La ferita rimaneva come pulita, faceva solo da ponte, tutto intorno a lui solo un gettito di vita che va via e lascia il marchio. Usciva a fiotti fino a riversarsi nella riva più prossima del ruscello, quasi a voler spegnerne il rosso cupo, quasi a voler trasformarsi in una limpida essenza, non più corruttrice di corpi ma assoluto e penoso tratto di rosso colore. Aveva cercato di dormire ma il materasso d’erba lo sentiva pieno di aghi e ricolmo di un calore inverecondo, esacerbato dall’agonia delle ore che si davano il cambio come carcerieri davanti alla cella di un condannato a morte. Poi, inaspettato, udì un urlo che si stagliava vorace nel silenzio più sottile e sospinto nel cuore del cielo notturno. Fulmineo, senza alcun alito di preannunciato inizio e quasi senza fine. Le sue orecchie lo avevano colto subito, nitido e senza suoni di riporto. Non era ancora addormentato, era sospeso o quasi legato al primo dormiveglia, mancava poco alla quiete che non avrebbe mai assaporato sino in fondo. Riaprì gli occhi e corse con la speranza fino ad accennare di rialzarsi, indugiò un attimo, come se volesse capire qualcosa che intimamente già sapeva. Il buio della sofferenza non era un buon alleato della sua vista. Dipingeva quadri imprecisi e senza la nitidezza delle forme plastiche concesse agli uomini sani di corpo. Quello che vedeva era solo nero. Poche e sparse macchie di luce nel cielo senza riverbero sul terreno. La luna assente. Aveva sentito un urlo, qualcuno aveva urlato. Si, lo aveva sentito. Ma quale voce lo avrebbe raggiunto se non avesse dato un minimo di coordinate alla sua salvezza? Provò a girarsi e mettersi sul fianco. Poi con le mani si fece forza e diede uno strattone al corpo che portava a fatica sulle spalle.
Quanto aveva vagato, prima di lasciarsi andare, aveva camminano lento e pesante, come se le sue gambe fossero state pilastri che si strappavano dal terreno ad ogni passo, come orme che si posavano sulla lava fluida, non aveva lasciato traccia del suo percorso. La sua anima inseguita dall’inferno di pochi attimi trascorsi nel mirino del nemico era rimasta costantemente avvinghiata al suo corpo, smussata appena da un piccolo foro di proiettile. Cieca e timorosa non voleva assistere all’uscita e non sarebbe andata via tanto facilmente. Rideva e si lamentava, quasi come in un incessante passo in avanti e corsa all’indietro, ed ogni piccolo attimo di pace era rovinato da improvvisi ed acuti dolori di perdizione. Quel mostro, che aveva intravisto nei cespugli, incedente continuava ad avvicinarsi, aveva il piacere di trasfigurare il volto di sua madre, lo strazio di liquefarsi nei suoi occhi, e piangere come se avesse saputo di non poterla più salutare, neanche un’ultima volta. Un essere deforme con la falce in mano, pronto a rastrellare ogni suo sogno di serenità. Braccia spalancate che tendevono un tranello alla fine, vergine che si tramutava in demone, dono sublime di infamia, rude tenacia di polvere da sparo. Sentiva il sangue colare come da una sorgente feconda, lungo le gambe, defluiva sul terreno e disegnava un letto disfatto di atroce delirio. La ferita rimaneva come pulita, faceva solo da ponte, tutto intorno a lui solo un gettito di vita che va via e lascia il marchio. Usciva a fiotti fino a riversarsi nella riva più prossima del ruscello, quasi a voler spegnerne il rosso cupo, quasi a voler trasformarsi in una limpida essenza, non più corruttrice di corpi ma assoluto e penoso tratto di rosso colore. Aveva cercato di dormire ma il materasso d’erba lo sentiva pieno di aghi e ricolmo di un calore inverecondo, esacerbato dall’agonia delle ore che si davano il cambio come carcerieri davanti alla cella di un condannato a morte. Poi, inaspettato, udì un urlo che si stagliava vorace nel silenzio più sottile e sospinto nel cuore del cielo notturno. Fulmineo, senza alcun alito di preannunciato inizio e quasi senza fine. Le sue orecchie lo avevano colto subito, nitido e senza suoni di riporto. Non era ancora addormentato, era sospeso o quasi legato al primo dormiveglia, mancava poco alla quiete che non avrebbe mai assaporato sino in fondo. Riaprì gli occhi e corse con la speranza fino ad accennare di rialzarsi, indugiò un attimo, come se volesse capire qualcosa che intimamente già sapeva. Il buio della sofferenza non era un buon alleato della sua vista. Dipingeva quadri imprecisi e senza la nitidezza delle forme plastiche concesse agli uomini sani di corpo. Quello che vedeva era solo nero. Poche e sparse macchie di luce nel cielo senza riverbero sul terreno. La luna assente. Aveva sentito un urlo, qualcuno aveva urlato. Si, lo aveva sentito. Ma quale voce lo avrebbe raggiunto se non avesse dato un minimo di coordinate alla sua salvezza? Provò a girarsi e mettersi sul fianco. Poi con le mani si fece forza e diede uno strattone al corpo che portava a fatica sulle spalle.
“Non è finita ancora....resisti” accennò con poche e veloci parole.
In quel bosco, nei pressi di una roccia adunca e mista ad erbacce pungenti,
Isac adagiò Elen sul terreno. Gli occhi assenti, lo sguardo distratto e solo
una piccola perla di sudore a coronarle un ciuffo di capelli liberati dal
vento. In testa un berretto di lana grezza e sfilacciato, aveva freddo quando
era uscita di corsa. Isac aveva ancora nella orecchie e nella testa il suono
delle sue parole: “non posso
farcela, no, rallenterei la tua corsa, sono stanca e ferita. Lasciami qui, ti
prego, e mi ricorderai così davanti a te, inerme e sconfitta da questa
battaglia. Questo posso fare per te, lasciarti andare... per ogni sera che mi hai lasciato dormire, per ogni
sera che mi hai coperto con un caldo abbraccio. Amante di una donna finita e
sospesa nell’altro senso della vita. Come sono belli i tuoi occhi amore mio.
Come sono lucide le tue ali e come in alto mi porta il tuo ricordo. Chino su di
me tu riesci a sentire quanto poco sangue mi scorre nelle vene e quanto tu me
ne avresti donato se solo avessi potuto. Se solo ne avessi avuto a sufficienza
per entrambi o magari solo per me. La notte ha già costruito questo muro
di pietra che ci divide e solo per un attimo le tue pupille, nel buio pesto,
diventano liquide e tremolanti come la fiamma di una candela che si inchina ad
uno spiffero di vento improvviso. Mentre io bevo l’ultima goccia di questo
calice doloroso tu diventerai invisibile e mi lascerai per sempre. Lasciami
dormire in pace ancora per un’ora...tra le nubi cariche di pioggia di questo
mattino. Tu non piangere, hai promesso e non lo farai, vai via, scappa....” Come poteva lasciarla? Lei era la sua segreta essenza di
vita e non avrebbe fatto neanche un miglio senza placare la voglia di ritornare
indietro. Ricordava l’attimo in cui l’aveva conosciuta, quando la sua anima
aveva deciso di abbandonarlo trapiantarsi in quella dolcissima fanciulla dai
capelli color del grano. Ancora si chiedeva cosa aveva provocato quella fuga
verso di lei. Quando i suoi occhi si erano posati, increduli, sulla sua carne,
quando avevano rifinito i contorni del suo volto, quando l’udito aveva sentito
le note più dolci del mondo espresse nella sua voce, solo allora, quando
l’aria che aveva intorno gli era parsa così poca da mancargli il respiro,
allora si era accorto quanto vuoto e smarrimento albergava nel suo essere. Non
aveva niente tra le mani, non aveva niente che gli potesse servire, niente che
potesse aiutarlo a definire meno nera la notte che stava scendendo, nessuna
torcia per mostrare la via di casa, nessuna voce che lo richiamasse, niente e
nessuno. Era solo con lei e così sarebbe voluto restare per ore ed ore ed
ancora ore fino a che l’orologio del campo non avesse intonato l’ultimo rintocco
di vita del mondo.
Così era caduto nel pozzo del desiderio più cupo, rintanato tra le siepi di arbusti selvaggi, non voleva tornare indietro, perseguitato, ferito e preda di mille lupi. Non aveva alcun timore a rimanere così. Negata era la sua origine. Calpestato e dimenticato piangeva nel bosco arso dal fuoco dell’inferno. “Ti supplico non andartene amore mio...dammi modo di non pensare a quello che sto facendo. Dammi modo di sostenere le mie gambe tremanti, dammi modo di toccare la tua pelle e divorarne il profumo come un’ape che si posa sul fiore carico di nettare e polline. Fammi inebriare le narici ed ogni cellula, anche la più piccola, anche quella che sta per morire. Dammi modo di vivere in tè e di mettere le radici nel terreno caldo e morbido. Non ti chiedo di avere notti serene, di sogni senza incubi, di camminare senza inciampare, di bere alla fonte e dissetarmi in un istante, di mangiare e sentirmi sazio al primo boccone, di tuffarmi nel mare calmo e nuotare sino al tramonto senza sentire la fatica nelle braccia, di rispecchiarmi e vedere la giovinezza non svanire mai, di non toccare la mano calda e violenta del dolore, di morire senza agonizzare. Non ti chiedo quello che gli altri non vivono o non vivranno mai, ti chiedo solo di far scorrere la mia vita come un fiume lento e inesorabile che prima o poi dovrà scendere a valle e finire nel mare. Lei mi conosce più di quanto io stesso sappia comprendere e accettare. I suoi baci mi dedicano nuovi mattini e mi rendono quiete le notti da venire. I suoi occhi sono specchi che, nel mio essere, scrutano e vedono quello di cui ho bisogno e senza chiedere me lo danno. Lei porta nella mia vita lo stupore, la dolce sensazione di vivere senza remore, senza pensare a quanta pioggia cadrà domani, a quanto vento soffierà sui crinali delle montagne più alte. Lei porta via la neve e scioglie il gelo. Fammi essere l’angelo che scruterà per sempre il suo passaggio, allontana quel demone che divora il nostro presente...”
Così era caduto nel pozzo del desiderio più cupo, rintanato tra le siepi di arbusti selvaggi, non voleva tornare indietro, perseguitato, ferito e preda di mille lupi. Non aveva alcun timore a rimanere così. Negata era la sua origine. Calpestato e dimenticato piangeva nel bosco arso dal fuoco dell’inferno. “Ti supplico non andartene amore mio...dammi modo di non pensare a quello che sto facendo. Dammi modo di sostenere le mie gambe tremanti, dammi modo di toccare la tua pelle e divorarne il profumo come un’ape che si posa sul fiore carico di nettare e polline. Fammi inebriare le narici ed ogni cellula, anche la più piccola, anche quella che sta per morire. Dammi modo di vivere in tè e di mettere le radici nel terreno caldo e morbido. Non ti chiedo di avere notti serene, di sogni senza incubi, di camminare senza inciampare, di bere alla fonte e dissetarmi in un istante, di mangiare e sentirmi sazio al primo boccone, di tuffarmi nel mare calmo e nuotare sino al tramonto senza sentire la fatica nelle braccia, di rispecchiarmi e vedere la giovinezza non svanire mai, di non toccare la mano calda e violenta del dolore, di morire senza agonizzare. Non ti chiedo quello che gli altri non vivono o non vivranno mai, ti chiedo solo di far scorrere la mia vita come un fiume lento e inesorabile che prima o poi dovrà scendere a valle e finire nel mare. Lei mi conosce più di quanto io stesso sappia comprendere e accettare. I suoi baci mi dedicano nuovi mattini e mi rendono quiete le notti da venire. I suoi occhi sono specchi che, nel mio essere, scrutano e vedono quello di cui ho bisogno e senza chiedere me lo danno. Lei porta nella mia vita lo stupore, la dolce sensazione di vivere senza remore, senza pensare a quanta pioggia cadrà domani, a quanto vento soffierà sui crinali delle montagne più alte. Lei porta via la neve e scioglie il gelo. Fammi essere l’angelo che scruterà per sempre il suo passaggio, allontana quel demone che divora il nostro presente...”
Il buio doveva aver invaso ogni cosa, portando via con se,
come nascosta in un barile colmo di pece, anche l’anima degli uomini. In quella
notte di plenilunio, solo un piccolissimo frammento di luce scorgeva due
figure. Forse due pastori erranti alla ricerca del gregge disperso, forse due
fantocci liberati dal vento e strappati con forza dal loro appiglio di legno
nel campo di granoturco poco distante o forse Isac ed Elen. Due persone. Ferme
nel corpo ma anime senza sosta. L’aria gelida del crepuscolo pareva conficcarsi
nella loro carne come delle lame che squarciano e rientrano di nuovo nella
ferita ancora calda. In mezzo ad una miriade di faggi, alcuni mozzati di tronco
ed altri semplicemente isolati dal resto del bosco, avevano corso a perdifiato.
Arrivati al centro della radura uno di loro si era fermato ed aveva scrutato
tutt’intorno. “Qui dovremmo essere al sicuro...” la voce di Isac, quasi
in semitono, aveva rotto il silenzio. Accendere un fuoco e ripararsi dal freddo
non doveva essere una grande impresa visto con quanta velocità la fiamma
si era liberata dalle sterpaglie e dal fogliame raccolto in fretta. Il bagliore
che ne era generato iniziava a dipingere di rosso il mantello della notte,
mentre scintille volavano e si disperdevano tra i rovi e gli arbusti
più bassi. Isac parlava o confabulava qualcosa senza alzare minimamente il
tono della voce, senza distogliere gli occhi dalle spalle, sembrava quasi che
pregasse rivolto verso l’ignoto. Neanche la fiamma calda lo richiamava verso di
se, continuava a guardarsi intorno. Nessuna scena serena, nessuna pace
ricercata e ottenuta, quel riposo doveva durare solo pochi attimi, fra poco la
corsa sarebbe ricominciata. Il verso improvviso del vecchio gufo, rintanato
nell’albero cavo, lo aveva fatto trasalire. Si era rialzato di scatto ed aveva
ritirato le mani da fuoco. La sua immaginazione ritagliava l’attimo prima della fuga e si rintanava nella sua
mente la scena che aveva vissuto e rivissuto ogni notte, quando lo avevano
chiuso e celato dal resto della civiltà, nel letto di legno stretto e umido. Ed
ancora il volto di sua madre, l’agonia di quegli occhi fermi nel tempo,
abbandonati e trasfigurati al pianto, lo richiamarono a ripercorrere la via di
casa. Solo col pensiero, solo con la sua immaginazione. Una scala discesa senza
ripensamenti. Di nuovo traslato nel chiaroscuro di un sogno, senza indumenti e
senza speranza. Solo le mani, fredde, sporche anelavano di aprire quella porta
che, come spalancata da una folata di vento di scirocco, aveva plasmato la
sagoma del suo vecchio mondo.
“Madre... sono tornato qui, dove tutto è
iniziato, nel sogno di una vita che non avrei mai vissuto, nel l’estasi di un
pensiero mai sopito, nella pace di questo luogo senza tempo e senza dimora,
nella discesa veloce verso la valle e nei passi lasciati da altre orme, forse
da passeggeri distratti. Sono tornato per ritentare, per assaporare un’ultima
nota lieta prima che mi costringano ad entrare in quella porta. Prima che
dietro di me si schiuda l’agonia dell’ attesa e davanti mi si mostri la
perdizione della carne, l’odore del gas e le penose lacrime che liquefano occhi
e palpebre, in un solo momento. Come un respiro vorticoso che non si vorrebbe
mai far entrare nei polmoni. In questo mio mondo di cristallo la mia mente ha
ritrovato gli odori e le figure che avevo perduto. Ho ritrovato gli sguardi di
mio padre, il suo mucchietto di sigarette, nel luogo dove nessuno lo avrebbe
scoperto. Chino a guardare quel piccolo ponticello di cenere e ricordi .ho
sorriso. Ho ritrovato, lanciato dal vento che agita la tenda della cucina, la
tua figura esile e silenziosa, mamma, il tuo grembiule appena tinto
dalla marmellata di more, la crostata calda sul davanzale. Ho ritrovato la
musica del suo eco notturno. Il respiro che si avvicina alle mie orecchie e la
tua voce soave. E lì, in quel momento di inesplicabile attrazione, mentre
già avvertivo il caldo delle coperte ed il profumo della lavanda sulle
lenzuola bianche, lì, come azzannato da un cane che sbuca dal buio,
lì la mia colpa, il mio essere solo un uomo, si è resa carne. Ho pianto e gridato
dimenticando e cancellando con quel risveglio assurdo tutto quello che prima la
mia mente aveva creato. No, non sarei dovuto fuggire da quella casa, dalla mia
casa. Li dove era nato il miracolo della mia infanzia, dove avevo vissuto per
così tanto e poco tempo, dove avevo portato a generare le mie emozioni
più vere, dove come un fuggiasco transitavo nei momenti di panico, dove
la luce della mia stanza era sempre accesa. Mamma di te mi resta solo questa
sciarpa che porto stretta al collo. Lì dove le stagioni mi avevano dedicato
le miracolose variazione dei loro mesi, dove i campi di grano si aprivano come
un letto caldo al mio abbraccio con l’estate, alle mie corse spensierate, dove
i miei occhi hanno atteso la rugiada del mattino come risveglio accanto agli
armenti in transumanza, lì vorrei che mi portassi, un’ultima volta per
misurare solo un attimo quanti anni sono passati e quanti ricordi si sono
moltiplicati. Tutto il resto, via, saccheggiato, bruciato, dileguato...”
Così, quando tutto è iniziato, quando la potenza suprema
di un essere impreciso si è ritrovato a scendere sulla sua pelle stanca,
quando, per un attimo, il mondo è parso rallentare ed impaurito, una carica di
tensione lo ha vinto. Quando una madre ha lasciato la sua casa per correre
dietro ad un camion pieno di disperati, allora si sarebbe dovuto accorgere di
essere totalmente legato, nelle mani e nei piedi, ad uno spirito inquieto che
rincorre, incessante, una risposta senza speranza. Si era sempre chiesto
perché chi lo aveva partorito lo avesse nutrito fino a quel momento.
Doveva maledire la notte del suo primo germoglio di vita, maledire il
concepimento per l’espiazione eterna. Quando è stato deciso che, tra
tutti gli uomini, doveva essere lui quello a venire fuori nella notte più cupa?
Come mai doveva essere lui a risalire dalle fredde acque del torrente e
lasciarsi cadere, fradicio, sul terreno asciutto e caldo dell’estate afosa?
Tutto questo lo opprimeva maledettamente. Si contorceva e lo divorava il solo
pensiero. La cattiveria dell’essere è talmente tanto opprimente che aveva
staccato tutti i germogli del suo albero e se non si fosse liberato da questa
non sarebbe riuscito mai più a tendere le mani verso la luce. Così la
notte lo aveva inghiottito. Lo odiava e lo amava consacrando l’angelo che si schiudeva
nei suoi occhi come qualcosa di vero ed autentico. Chi aveva giocato con le sue
vesti e cantato le note più tristi del suo povero cuore, sospeso tra il
giorno e la notte, ne ubriacava il ricordo, il ricordo di essere stato puro e
semplice come un bambino che si avvicina ad una sorgente di acqua fresca e
cerca ristoro, niente altro aveva da dire adesso. E quando anche lui si era
chinato per bere qualche goccia era stato lì che aveva avvertito quanto sale
custodiva la sua bocca. E più cercava di dissetarsi, tanto più la
voglia di affogare in quella sorgente diventava impellente, incessante ed
incalzante come una voce che ti porta a correre fino all’oblio. Poi, quel vento
di terrore, quasi una mano senza dimora che gioca, trasparente, con la sua anima,
lo ha chiamato a grande voce. “In fila…giudeo” Così aveva
mescolato il suo piccolo cuore al resto del creato ed era diventato solo un
misero schiavo di quell’immenso ed attanagliante male. Qualcosa scritto nel
destino e dedicato a rivivere, sempre e comunque, più pezzi di vite nelle
ossa e nella carne altrui. Ed anche quando era stanco di graffiare con le mani
la nuda terra, le sue unghie erano troppo fragili, nonostante tutto si era
fatto strada lungo il sentiero, anelato, della pace più autentica. Avevano
scavato incessantemente ed erano arrivate sino alla fonte nascosta. Quella
più in fondo, quella dalla quale tutti avremmo voluto bere, quella che
lascia nella gola il mistero del creato, la goccia che disseta e purifica ogni
cosa, la simbiosi di un attimo in un pugno di liquido incolore che si apre
nella carne un passaggio fìtto ed oscuro ma che si ritrae appena tocca il fondo
per risalire sino all’inizio o all’origine di tutto. E, simile ad un vermicello
della terra, era disceso sin dentro alla voragine del male. Aveva strappato il
cuore palpitante e l’aveva ributtato nel suo petto, aveva deciso di saziarsi di
esso perché era il solo che gli dedicava un pezzo di verità. Quando gli
era stato detto il tempo che restava, non si era chiesto perché o
perché io. Non si era detto forse si sono sbagliati, aveva pensato che era
giunto il momento. Doveva avere un’inizio ed una fine e questa era quella che,
ora come ora, doveva vivere per l’ultima volta, insieme a lei. È strano
concepire di morire e voler vivere la morte come una liberazione e non come
un’addio. Lasciarsi tendere la mano in ogni momento e lasciar cadere il corpo
come se non fosse mai stato vivo. In quel momento la memoria era partita come
un’aquila senza meta. Aveva sorvolato ogni traccia del loro passato ed aveva
riportato soltanto il loro amore, tra le cose che non dovevano dimenticare.
Ogni piccola ebbrezza del loro essere si fermava così davanti all’incantesimo
di tenere in mano il loro amato tesoro nascosto. Isac si rigirò sul
fianco e pose la mano calda sulla fronte di Elen. Fredda, tremendamente, e
ricoperta da un sudore strano e senza odore. Quante domande si stava facendo e
quante poche risposte generava il cuore in ansia. Lentamente, la sua anima, si
diluiva in quella figura. Aveva preso per i capelli il crepuscolo ed in esso si
era lasciato andare, abbandonato. Nessuno aveva osato dirgli di stare fermo o
di lasciar passare il tempo. Nessuno aveva intuito quello che il cuore suo,
sopito, ricercava silenziosamente. Nessuno aveva scorto alla finestra il
ceruleo trasparente degli occhi suoi che brillavano al passaggio di quella
donna. Quando il sole aveva riportato la luce, nessuno aveva pianto, nessuno
aveva sorriso. La solitudine li aveva colti così, senza forze e senza tempo.
Avvolti come in un’ abito stretto e lacero, si erano scambiati una promessa,
vivere e morire insieme e si erano amati senza pensare al resto della tristezza
e dell’agonia che da quel campo si generava in un fumo denso e asfissiante.
In
questo momento, mentre il pensiero lo portava a riscoprire la disperazione di
quei giorni, una nuova pagina si scriveva nel ricordo della sua mente. Non
aveva carta ne penna, non aveva che pochi stracci per asciugare le lacrime che
sarebbero sgorgate di li a poco, ma i suoi occhi non dovevano mostrare quello
che divorava lo spirito e così li aveva chiusi come per dormire. “Ho
paura di non riabbracciarti e di non riuscire a trovarti tra la folla... Ho
pensato al tuo corpo caldo, alla pelle sudata, alle labbra... forme di baci ed
estasi di sussurri....in quel pensiero soave ho intrecciato la mia immagine e
l’ho tenuta costante nel cuore come a volerla preservare in una reliquia che
prima o poi sarà liberata. Voglio riperdermi nell’abbraccio del tuo corpo.
Nella bocca che si nasconde assetata nel sorso di acqua pura. Vorrei
rinchiudermi in esso e solcare i lidi silenziosi, stare a guardare la pelle e
delirare al contatto con essa. Ho cercato di soffocare il lamento dei bambini
che dormivano affianco a me, ho macinato improvvise ed incredibili storie,
ho cercato di lanciare, come un sasso nello stagno, l’immaginazione di un
folletto del bosco che cammina e cerca di liberare tutti quelli che fanno i
bravi. Amore mio dobbiamo fuggire, ora, subito, non c’è più tempo.
Fra pochi minuti verranno per portarci in quel capanno da dove nessuno è più
ritornato. Su, su, dentro quel buco, togli le scarpe, veloce.....”
E così, da quelle parole era nata l’idea e la coronazione
del sogno. Avevano respirato pianissimo al passaggio sotto la griglia del
guardiano, avvertito solo le parole della cena con gli altri soldati ed intuito
che da quelle risate, senza senso e senza vergogna, domani sarebbe stato
l’inizio della loro fine. “Domani ne facciamo fuori centoventi....peccato
che il forno non ne riesca a contenere di più....”aveva detto qualcuno con
una voce simile a chi parla e si sostiene a fatica per il peso degli effluvi
del vino. Ma avevano sentito abbastanza e si erano fermati lì solo un
attimo. Poi la loro fuga era continuata nei liquami, avevano quasi nuotato, solo
il naso e gli occhi liberi, tutto il resto ricoperto da escrementi. Ed ancora,
prima dell’ultimo rifugio, prima del bosco inoltrato, il lago gelido, ma
così evanescente da ricercare e desiderare il riposo tra quelle acque, li
aveva visti affannarsi per superare ed arrivare al bordo estremo della riva
opposta. Ma lì, mentre le rocce stavano per raccogliere le mani anelanti
l’approdo, un colpo di proiettile, sparato dall’altro della torre di controllo,
quasi a casaccio, per colpa di un rumore inaspettato, aveva ferito Elen.
Neanche un urlo, il colpo doveva aver preso un animale che era morto
all’istante, aveva pensato il soldato di guardia. Elen era rimasta attonita e
ferma sui suoi passi, non aveva indietreggiato nè dato un cenno in avanti.
Aveva solo portato la mano sulla ferita e cercato di arginare il sangue. Isac
l’aveva guardata di scatto. Sorpreso nel vederla ancora in piedi “Elen...”
riuscì a dire. Lei ricambiò lo sguardo senza accennare al pianto, solo un
velo di luce dolorosa parve animarle gli occhi, come un bambino incredulo della
scoperta ma rintanato nel suo nascondiglio “Shh...... “ sentenziò
con un filo di voce, poggiando la mano sulla bocca di Isac che singultò come
per gridare ma nessun eco la raggiunse e nessun urlo la percosse. Poi tentò
di lasciarsi cadere piano, appoggiando le braccia lungo quelle di Isac che
fecero forza per trattenerla. Così, quando il dolore aveva preso il sopravvento
sulla sua fermezza, quando la carne le aveva sconvolto la mente, quando anche i
suoi gemiti avevano reso più difficile il cammino, era nata l’idea di
caricarla sulle spalle ed era iniziato il lungo tragitto di Isac. Si era
fermato dove era al sicuro ma sapeva di non poterci rimanere per sempre. Ed in
quella radura, al riparo dalla morte, dal male, dal forno, dalle percosse e
dalle umiliazioni, lì, avevano rivisto la loro esistenza e cercato di
afferrarla per tentare di non lasciarla fuggire. Isac aveva cercato, inutilmente, di arginarne l’uscita, ma la
vita di Elen era già troppo in la per trattenerla: “Ti prego restisti...”
erano state le ultime parole che ella aveva udito. Ed anche quando l’ultimo
anelito di speranza si era dileguato così Isac aveva cominciato a correre e
correre a perdifiato. Dietro di lui c’era la sua vita ormai morta ma davanti
aveva la speranza di non lasciarsi divorare ancora da quelle bestie fameliche.
Poi, quando una lingua diversa dal tedesco era arrivata al suo timpano, corroso
dalle urla strazianti delle cento albe trascorse nel campo, senza la forza a
trattenerlo, prima di lasciarsi cadere aveva urlato “Aiutatemi... sono
qui.... “
Nei suoi sogni aveva visto la luna tendere le mani e
prenderlo delicatamente. Nei suoi sogni aveva visto le tenere gote di lei, i
suoi capelli agitati dal vento e la sua mano perdersi in una miriade di carezze
infinite. Lei dormiva su guanciali di rosa e lui la carezzava senza dare
profondità al tatto come se la pelle non dovesse essere toccata, tanto era
bella. La sua pelle, scintillante come una stoffa che ondeggia appena mossa dal
vento, i suoi capelli senza il laccio a fermarli, il suo respiro sognante come
la brezza marina, l’anima appostata nei suoi occhi di cielo, tutto gli tornava
alla mente. Neanche un particolare gli sfuggiva, la vedeva procedere
lentamente, sotto le braccia aveva delle radici e percorreva sempre e solo quel
sentiero, dritta avanzava verso di lui. Il corpo pareva piegarsi come se
dondolasse per non posare i piedi scalzi sul terreno. Quasi un fluttuare. Una
nave che scende e risale la corrente per arrivare al porto sicuro. Ancora i
suoi occhi seguitavano a vederla. Apparizioni imprecise, altre volte
tremendamente vere, quasi un sogno la vita reale e concreto il pensiero nel
sonno profondo della notte.
Quando la realtà gli aveva riconsegnato, imprecisi, i suoi anni da vivere, allora
aveva capito che lei era morta, sepolta nel bosco della fuga, sepolta tra la
roccia ed il lago, a pochi passi dalla speranza che entrambi avevano voluto e
non raggiunto appieno. Ed ancora, ancora ora, ora che i suoi ozi erano
diventati giorni e giorni di passato, che il suo presente era lì a giocare con
un piccolo soldatino alla guerra, ora che sentiva l’aria e ne assaporava il
profumo, ora che anche le lancette dell’orologio, in sala da pranzo, non
avevano più lo stesso suono, ora che sua moglie lo chiamava “Isac .prendi il
piccolo Ibram e vieni a tavola...” ancora ora non si era riappacificato con
la sua coscienza e non aveva che quel ricordo a tormentarlo senza fine.
Ecco una lacrima sfuggire e cadere sulla camicia bianca, appena stirata e profumata di lavanda. Con la mano l’aveva raccattata, una lucciola in un campo di grano. Era nitida, senza colore ed al contatto con i raggi del sole pareva iridescente come i suoi occhi. Era la madre della sua memoria, quella che aveva amato più di ogni altra cosa al mondo, la fonte della sua aspirazione e la tenacia che lo aveva sostenuto nel tormento della fuga, ciò che aveva perso e mai più ritrovato, il palpito più acuto e breve della sua esistenza, la bellezza della pelle gelida al tatto, tutto quello che aveva perduto e mai più ritrovato, ancora era ricordo e non lo avrebbe mai lasciato.
Ecco una lacrima sfuggire e cadere sulla camicia bianca, appena stirata e profumata di lavanda. Con la mano l’aveva raccattata, una lucciola in un campo di grano. Era nitida, senza colore ed al contatto con i raggi del sole pareva iridescente come i suoi occhi. Era la madre della sua memoria, quella che aveva amato più di ogni altra cosa al mondo, la fonte della sua aspirazione e la tenacia che lo aveva sostenuto nel tormento della fuga, ciò che aveva perso e mai più ritrovato, il palpito più acuto e breve della sua esistenza, la bellezza della pelle gelida al tatto, tutto quello che aveva perduto e mai più ritrovato, ancora era ricordo e non lo avrebbe mai lasciato.
Così, ogni sera accanto al fuoco, ogni mattina dinanzi al
primo sbadiglio verso il sole, ogni inverno nella neve e nel vento che agita i
rami degli alberi, ogni primavera ricolma di primi fiori di campo, ogni estate
frizzante di brezza marina e sale, in ogni autunno, lungo le strade piene di
fogliame, così l’avrebbe ricordata, sempre. “ Come sono belli i tuoi occhi
stasera. Un muro tra noi e niente altro che ci ricongiunga alla vita. Vorrei
evocare momenti felici ma non posso. Chiusi sono i tuoi occhi e troppo lontano
corre il tuo cavallo per raggiungerlo. Dammi solo un’eclissi la vedrei come un
bacio tuo senza fine... ma tu dormi e
non ti curi del mio percorso. Quanto più mi sono allontanato da
tè tanto più sono sopravvissuto. Ho urlato invano il tuo nome ma
quello che mi ha vinto, la disperazione, ha reciso il legame con la tua carne
pura e fredda. Ascoltami, le parole sono così piccole, quasi trasparenti,
segnano il passaggio dal vetro della stanza come a voler trasmigrare silenziose
verso l’ignoto, dove tu sei adesso. Le vedo, sono lontane e crescono ad ogni
giornata che si spegne nelle prime stelle che sì accendono. Come aggrappate al
mio antico rimorso non fanno altro che crescere, crescere ed a causa di questo…
spesso… non trovo le parole per parlare con la gente, per dire qualcosa a
lei…che sa ma tace. La tempesta più cupa non riesce ad abbattere questo
dolore. In esso sento e riascolto la mia voce dolente. Quando ho cercato,
invano, di tornare indietro, quando ho detto loro di rientrare nel bosco,
quando la disperazione mi ha invaso a grandi passi ed ho perso la cognizione
del tempo, quando al risveglio in un letto d’ospedale ho cercato, in ogni
angolo, di scorgere la tua figura, quando mi sono tormentato sino a trafiggermi
sulle grate più aguzze della finestra che dava sul cortile, quando neanche la
morte ha voluto tenermi vicino, allora ho capito che doveva essere così. Amata
compagna, non volevo lasciarti ma quello che ero diventato mi aveva reso troppo
debole. L’angoscia ed il pensiero di poter ritornare nel campo mi hanno reso
cieco e sordo. Non ho neanche sentito se respiravi ancora. Quando ho scorto la
vita lasciarti senza fiato allora ho pensato alla fuga. In essa ho liberato la
mia disperazione ma nel tuo nome ancora intingo le mie emozioni più vere. Non
hai colpa se il destino aveva deciso chi dei due doveva rinascere e chi
lasciare l’orma nel terreno. Amore mio con te ho sepolto anche la mia
anima. Ti prego, tienila stretta… un giorno… forse domani… verrò a
riprenderla!”