SE E FORSE - in memoria di Piermario Morosini

Era quasi un rito, qualcuno lo chiama scaramantico, ma prima di entrare in campo io guardavo sempre il cielo. Ogni volta che i tacchetti affondavano nel manto erboso, prima di ogni partita, scrutavo la faccia che aveva il cielo. Guardavo e vedevo quello che il mio cuore sperava di vedere. Gli occhi di mia madre, il suo sguardo, sempre attento, sempre presente, anche se assente nella realtà. La figura di mio padre, le sue sembianze così chiare eppure invisibili, la sua voce, l’eco di quel suo “stai attento…”. È strano ma anche quel giorno ho guardato il cielo. Il sole non riusciva a passare, l’aria sembrava cristallizzata, rarefatta. Si faceva quasi fatica a respirare o forse facevo fatica io. Ho visto solo nubi. Ho provato un senso di sconforto, una sensazione simile alla paura, ma è durata solo pochi secondi. Poi il fischio di inizio. L’adrenalina che entra ancora nei muscoli, la corsa, l’impegno, l’agonismo. Il tempo è passato così veloce che neanche mi sono accorto di essere sul punto di morire. Poi l’affondo del nemico, il dolore, ha sconfitto la barriera del mio corpo ed è entrato. Che mi avesse messo fuorigioco non solo nel campo ma anche nella vita non lo ha capito quasi nessuno, se non il mio compagno di squadra. Due volte le gambe mi hanno spiazzato, si sono piegate, sono caduto, mi sono rialzato, ci ho provato, la terza volta mi sono arreso. L’erba mi ha carezzato il volto e ho sentito le tue mani, mamma. Ho sentito la tua voce, papà. Abbracci e voci che non avevo più sentito da tanto, troppo tempo. Così la maglia che si sfila, mani che provano a far ripartire il cuore, le voci, le urla, i pianti, nessuno poteva sapere quello che già io vedevo chiaramente. Non c’era più niente da fare, non ero più su quel campo, non indossavo più i pantaloncini, non avevo più i capelli lunghi, ma ero in pigiama, nel lettone di casa, attratto dalla dolcezza dei sussurri notturni di favole incantate. Mia madre che legge il nostro libro preferito. Io e mio fratello assuefatti da quelle immagini fantastiche, poi le coperte che si alzano, il bacio della buona notte e la luce che si spegne. Come si è spenta oggi. Anche mio fratello è in campo oggi, mi sta vicino nel tragitto che mi porterà in ospedale. Ha ancora la paura negli occhi, mi fissa come se fosse preoccupato e disperato. Non capisce che anche per me il destino ha avuto lo stesso percorso, la stessa matrice matrigna. In fondo si è trattato di pochi attimi e niente più. La mia vita si è arresa ed i soccorsi non hanno potuto fare niente per portarmi via dal buio. Se fossero entrati in campo prima, se ci fosse stato il defibrillatore, se … se… se e forse… starei ancora qui a parlare della mia esperienza. Ma nessuno lo saprà mai perché i dubbi rimangono sempre alla fine dei conti, quando la vita di un ragazzo si inchina ad una morte assurda quanto inaspettata. Spero sia almeno servita se può servire la morte di un ragazzo come me …a rendere meno cieco il calcio. Se può servire a mettere le lenti di ingrandimento sui problemi e non sulle vittorie. Non so se il pugno nello stomaco sia servito a far comprendere la necessità di mettere al primo posto la salute degli sportivi e poi i risultati, in questo momento mi importa poco. Ho un solo rimpianto. Non averti visto un’ultima volta amore mio…non aver visto il tuo sorriso. Ti lascio il mio pensiero che corre, corre verso di te per stringerti e sostenerti in questo immenso vuoto che ti farà compagnia stasera. Cerca di essere forte, di non piangere ed abbraccia mia sorella per me. Non dimenticare che io sono lei.    

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