ABBANDONATO

Il cielo sembrava un fardello che non poteva essere deposto altrove. Tratteneva, a fatica, qualcosa che doveva esplodere da un momento all’altro. L’aria era un calice di ossigeno rarefatto. Sottozero. Il silenzio, sceso dalla montagna di cristallo, sedeva, comodo, nella piazza. Comandava l’assenza come una necessità di sopravvivenza. “Statevene in casa” sembrava dire. Tutti ascoltavano quel muto richiamo. Nessuno provava a contraddirlo, mentre il vento sibilava tra le crepe delle case abbandonate. Il gelo, intanto, continuava a costruire amabili ricami sui vetri. Disegnava ed articolava paesaggi. Schizzi di mondi sconosciuti eppur vicini. Nella quiete prima della tempesta, l’orologio della piazza singultò un rintocco. Mezzanotte. Quella melodia, quasi spettrale, provocò una lesione nelle nubi e scivolò via, saltellando, un fiocco di tenue nevischio. Non toccò terra. Si fermò su una lettera di bronzo, scolorito dal tempo. Poi ancora uno ed un altro ancora. Fino a che uno squarcio, un lampo, aprì totalmente quei cuscini di vapore e grigio intenso. Milioni di piume ovattate si sparsero sul paese. La tormenta di neve ebbe inizio come una sinfonia d’orchestra. Rulli di tamburi erano i tuoni, a ritmo cadenzato, che squarciarono l’acuto di trombe squillanti soffiate dal vento.
In quel freddo pungente, un randagio vagava disperso, tra i vicoli bui. Tremava e cercava riparo dietro la ruota di qualche macchina in sosta.  Ma il gelido vento lo spingeva altrove. Si spostava senza logica, senza conoscere il posto in cui si trovava. Poi, d’improvviso, ecco una  cuccia di fortuna, tra vasi vuoti e fogli di giornale stropicciati. Decise di fermarsi, di accettare quel riparo ottenuto dal destino. Si attorcigliò nelle ossa, ormai era senza cibo da giorni. Si leccò la coda gelata. La ripiegò sotto una zampa. Si guardò intorno. Le case erano spente. Nessuna luce. Le serrande chiuse impedivano di guardare dentro. Solo il bagliore dei lampioni delineava il fumo che saliva dai comignoli. I camini erano accesi. Qualcuno doveva essere ancora sveglio e magari leggeva un libro, o sonnecchiava sul divano, o seguiva un film alla televisione. Certo è che stava al caldo, dentro casa. Mentre fuori la tempesta inaspriva la paura e ritagliava un pezzo di mondo che nessuno poteva vedere. Il randagio ebbe come uno scatto improvviso. Si rialzò. Lentamente si avvicinò ad un portone che gli sembrava quasi familiare. Annusò agli angoli del portone, poggiò la zampa sul marmo dell’ingresso, con l’altra cercò di graffiare il legno, di farsi sentire. “Sono qui fuori, aprite” Nessuna risposta. Rimase in quella posizione per qualche minuto. Quasi incredulo che nessuno gli avesse aperto. Poi abbassò lo sguardo. Sguardo che si era improvvisamente riempito di luce e che ora si stava spegnendo di tristezza. Ritornò nella sua misera cuccia. Era allo strenuo delle forze. Per non sentire i morsi della fame, provò a chiude gli occhi, ad immaginare. Si immaginò davanti ad un caldo camino. Era solo un’idea o la realtà di un passato ormai lontano? Un animale non può saperlo. O forse lo sa perché tutto ritornò nella sua mente. Ritornò a quando, appena nato, era stato comprato in un negozio del centro. “Papà, quello mi piace” ed era stato esaudito il desiderio di un bambino. Da quel desiderio aveva trovato una casa, una famiglia ed un piccolo ometto che lo prendeva in braccio come un giocattolo. Quel bambino era diventato il suo più fedele compagno di giochi.  Mille sorrisi ed infiniti abbracci. Erano quelli i suoi giorni felici, trascorsi e mai più ritornati. Poi il frastuono di un dolore, lo scosse nelle gracili  membra. Solo, impaurito, si era ritrovato in una campagna desolata. Aveva vagato per giorni e giorni, ma alla fine era tornato a casa. Davanti casa sua. Quella che era stata la sua casa per tanti anni fino a che non era diventato vecchio e stanco. Ora che non poteva essere più un giocattolo, ora che i suoi acciacchi lo avevano relegato ad essere un relitto di cane, quel rimorso si faceva più intenso e pungente. Non era la fame, era la vita che stava uscendo dal suo corpo ormai congelato. Era la felicità del ritorno delusa da una certezza.
No, non si era perso, come aveva sempre pensato. Era stato abbandonato, abbandonato per sempre. Fu quella certezza a fermare il suo povero cuore, mentre la neve ed il ghiaccio lo ricoprivano d’indifferenza.             

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