DO UT DES
Non è stato
semplice. La mia decisione era senza margini di dubbio. Sono stata io a cucirmela
sulla pelle. Nessuna lo avrebbe fatto al posto mio. Così, quando venne a
prendermi, non opposi alcuna resistenza. Avevo gli occhi bassi. Le ciglia socchiuse.
Nelle narici entravano solo nugoli d’aria in movimento. Mentre si avvicinava
sentivo il richiamo delle tenebre. Intorno a me c’era pochissima luce. Uno
schizzo, o forse poco meno, di pallida luna, che tremava al posto mio. Aveva
tra le mani una torcia spenta. Il simbolo di una fiamma perduta. Non avrebbe
potuto fare niente di diverso. Il suo compito era chiaro. Non osavo guardarlo,
ma non chiamatemi codarda per questo. Quando mi cinse la vita, con le sue braccia
fredde e nerborute, fiatai a malapena. Tentai di trattenere quanta più aria
potessi. Non volevo che uscisse neanche un sentore, anche se incredulo e
sottile, di paura. Eppure un sibilo si staccò dalla gola. Fu quasi
involontario. Come se la bocca, arsa dalla sete di vita, mi stesse implorando
di non arrendermi. Nessun ripensamento, ero pronta. Se qualcuno crede che per
me sia stata una scelta difficile si sbaglia. Avevo maturato l’idea della
consegna, spinta dall’impulso più recrudescente e severo. Ero pronta a
rinunciare a me stessa. Buona parte delle persone erano state interpellate. Quando
il sole mutò d’aspetto, quando si fece più fendente nei raggi, allora fu chiara
a tutti la necessaria conseguenza. Molte domande erano state poste. Eppure l’unica
risposta comprensibile, nel gioco della sorte, fu un NO. Un rifiuto secco, senza
ripensamenti. Troppo alta era la posta in gioco. Troppo assurda la richiesta di
offrirsi o immolare la propria carne per un altro uomo. Sacrificare l’essere
per un viaggio verso il non essere. Lui era di fianco a me. Un dipinto grezzo,
nero, dai tratti mutevoli. Avvolto, quasi completamente, nelle vesti del buio. Un
ologramma intermittente, appariva, per certi versi, come demone barbuto ed
alato, per altri, come un fanciullo dai piedi torti. Di lui si diceva che
avesse il cuore di ferro, le viscere di bronzo. Credo che fu per questa ragione
che decisi di non pregare, né implorare. Non sarebbe servito a niente. Era totalmente
insensibile alle preghiere. Una supplica mi avrebbe stravolto le idee, sarei
scoppiata in lacrime, e non dovevo piangere. Le nostre nozze, un mancato
sacrificio, la nostra stanza da letto invasa dai serpenti: ecco la rabbia, implacabile,
di Artemide. Fu solo grazie ad Apollo che Admeto, il mio sposo, fu graziato. Il
Dio del Sole pretese da Moire di non porre termine alla sua vita, nel giorno stabilito
dalla Sorte. Il favore gli fu accordato a patto che, nel giorno fissato per la
morte, qualcun altro si fosse mostrato disposto ad immolarsi, spontaneamente, per
lui. Ecco il giorno stabilito: il mio giorno. Solo io, Alcesti, fui pronta a
rinunciare alla mia vita per prolungare quella di Admeto. Fu così che, secondo la
promessa fatta da Apollo alle Moire, Lui venne a prendermi. Thanatos mi travolse
nel suo abbraccio mortale. Mi condusse nell’Ade. Un non-essere si impossessò
del mio essere. Il destino? La sorte? No, è il mondo che conosciamo. Limitato e
perfetto, incompiuto e scellerato, spesso carico di scelte infelici e crudeli, che
ci capovolge. Che ci fa essere e poi non essere in pochi istanti. In Thanatos
ogni cosa si dissolve. E’ una realtà quasi necessaria. Trascendente. Che prima
o poi arriva per tutti. Come il fuoco della notte ha dato origine all’universo,
così il non-essere spegne la fiamma e si incammina nei solchi della terra più
desolata. Prende la forma del nulla e, tremendamente, ci ricopre di fango e
sterco. E’ una legge di natura. Il dinamismo dell’essere e la caducità degli
esseri sono l’immagine del modo in cui l’uomo supera l’imperfezione imposta
dalla materialità. Tutto ciò che in un determinato momento appare poi, in un
momento successivo, si trasforma in altra cosa. E’ così che si dice: “la vita è
un continuo morire e nascere”. Il seme si deve sacrificare per generare la pianta.
Così come la pianta deve distribuire la propria vita, impoverirsi, per generare
il frutto. Frutto che poi è devoto alla distruzione per dare vita al seme. Ecco
la molteplicità. Ecco il divenire. Ecco l’amore. La sostanza che ci permette di
vivere e sacrificarci per un bene più grande. Un Do ut des immateriale e Karmico.
Mi doni il tuo amore, ti dono la mia vita. Mondi che si accendono e si spengono
in un istante. Così prendo la morte come il dono più bello che faccio alla vita
del mio uomo. Mi anniento per non fermare il suo cuore. Per fargli bere
l’assenzio della morte, nell’inoltrata vecchiaia. La mia esistenza desiste
grazie a lui. Rinuncio al mio essere per dargli prova del mio amore. La rete di
Thanatos mi trattiene nell’oltretomba. Io non mi divincolo. Avevo fatto i conti
con l’eclissi del mio mondo, se non fosse per Eracle che mi prese. Che mi
riportò nel tenero rifugio del mondo, con i piedi ben saldi sulla terra. Terra
ormai rigogliosa della mia femminilità, dove sacrificio ed amore si annodano
eternamente.