NIENTE
Il peso di quell’assenza affondava nei passi. L’eco
del silenzio si infilava, severo, nei capelli. Li annodava con sapienza, spinto
da manciate di vento caldo (che poi, forse, vento non era). Tesseva le trame, un
reticolato di pensieri asfissianti. Era lui uno dei compagni di viaggio. Forse
quello che meglio comprendeva le sue emozioni. Emozioni liquefatte nel movimento
assurdo degli impulsi cerebrali. Impulsi che, davanti ad una condanna, non
riuscivano ad elaborare niente. Bloccati sullo stesso tasto, a suonare una sola
nota: muta. Anche il silenzio, come gli occhi di lei, si nutriva di quella mancanza.
Occhi che sembravano interrompersi nello sguardo, salvo poi riprendersi, nel
movimento repentino delle ciglia che sbattevano veloci. Chiusi ed aperti. Come in
un continuo vedo non vedo. Eppure il cammino era lungo. Faticoso. Riusciva a
percepirlo, sentirlo, nella sua maestosità. Cosa doveva fare? Trattenere il
fiato, respirare appena. Esercizi che servivano per darle forza. Per non
inglobare troppa aria nei polmoni. Per non far pesare e pensare la testa. Per
dare alle gambe la spinta necessaria per continuare. Era solo il movimento,
quasi un automatismo, a definire quel corpo come un corpo dinamico. Per il
resto niente sembrava vivere in lei. Era una casa disabitata. Nessuno che apre
le finestre. Nessuno che accende la luce. Mura che man mano si sgretolano sotto
il peso di quella tormenta. Eppure davanti a quella casa c’era una strada. Si
apriva simile ad un viatico di passione. Strada di cui conosceva l’arrivo, la
fine. Strada senza senso ma obbligatoria da percorrere. La vita gli aveva
indicato o imposto il cammino e lei lo aveva preso, intrapreso, senza togliere
il cuore dai carboni. Cuore che bruciava, avvolto dalle fiamme del dolore, ma
che, ancora, non era completamente cenere. Poteva sentire, così come lo aveva
avvertito la prima volta, il dolore trafiggerla con precisione inaudita. Come
al primo annuncio del destino. Maledetto. In quelle parole, in quella diagnosi,
aveva capito cos’era quella zavorra che la rendeva così pesante. Cos’era
quell’assenza. Quella mancanza. Le lacrime se ne erano andate quando aveva
guardato quel bambino diventare improvvisamente vecchio, senza vivere neanche
un anno della sua vita. Quando aveva raccolto i primi capelli caduti sul
golfino. Quando gli aveva tenuto la mano durante la prima flebo, tremando solo
con la gola. Quando aveva trasformato la paura in una favola bugiarda, a lieto
fine, mentre gli rimboccava le coperte prima di dormire. Quando lo aveva preso
in braccio sfinito, dopo l’ultima terapia, e non aveva sentito che ossa. Non
più suo figlio ma una piuma. Il peso di un’anima pronta a sparire per sempre.
Ed in quell’abbraccio si era scarnificata della speranza. In quell’abbraccio, l’ultimo,
aveva consegnato, sconfitta, quella che era la sua vita “in mani più grandi,
mani discese dal cielo”. Così aveva detto il prete durante l’omelia, mentre lei
si svuotava di preghiere mai ascoltate. Lei che, oramai, non credeva più a
niente. Niente che non fosse reale. Reale come quella morte