PRONTA


Ognuno di noi la conosce o l’ha conosciuta, almeno una volta nella vita. Appare lunare nei lineamenti ma ha fuoco crepitante nella carne. E’ affine all’amore senza speranza, quella che tiene uniti, come due mani che si stringono sino a fondersi l’una nell’altra, la falsità e la lama tagliente, l’artiglio che penetra nello sguardo di fuoco, la tempesta e la nave che affonda nell’impeto dei flutti. Se si risveglia dal suo sonno leggero, improvvisa si scatena. Rapace, plana veloce avvinghiandosi agli spiriti che cercano, in lei, una ribellione alle pene d’amore. Manichini di cera, li fonde con una parola. Dilegua la ragione con un alito del suo essere. La sua perdizione è sorda, senza tregua. Quello che può sembrare poca cosa è per lei una ragione di vita. Per lei si muore e si uccide senza ritegno. Non vede persone ma solo nemici da sconfiggere. Ed una volta che li ha vinti, mentre li tiene fermi, premendo sul petto il suo tallone uncinato, richiama scorpioni e meduse a finire quello che ha iniziato. Si può perdere il respiro quando ci abbraccia nella sua asmatica solitudine. Minacciose nubi nere popolano il suo cielo. E’ una saetta che colpisce alla cieca e non vede quello che non vuol vedere. E’ una di due identità. Con la prima ci afferra e ricuce lembi di pelle alla nostra inquietudine, lasciando sul corpo lividi di terrore. Con l’altra ci porta nel tempio delle vite sospese tra assurdi moventi e agonizzanti ragionamenti. E’ un pendolo che oscilla tra solitari tramonti, scacciando la quiete ad ogni accenno di preghiera. Custodita in una muraglia di neuroni, quando esplode non ci da modo di fuggire, di trovare riparo. Conosciamo il colore che riveste le sue pupille ed in quegli occhi molti si lasciano andare, senza opporre resistenza. Arsenico che assopisce ed invisibile scende ad evocare altre note, sempre grevi, sempre senza ritorno. Minuti felici che si tramutano in drammi, ore spensierate che rintoccano a morte. Davanti a lei diventiamo piccoli corpi, rannicchiati, quasi consumati, dai raggi del primo sole. E’ in quei momenti che il presente non apre più le porte al tempo, rimane passato e si chiude in un’eclissi infinita. Conosciamo soltanto il suo nome ma non lo pronunciamo quasi mai: Ira. La prima discendente di un infelice casato. Della genesi non vede che la fine. Si libera e sconvolge la staticità della vita come il vento gelido che soffia, brutale, da nord. Nel margine estremo del dolore stilla la goccia che termina sempre in una lacrima. E’ il pianto dopo una giornata qualunque. Quella cosa che non ti aspetti di trovare alla fine della strada. E’ la mora ricolma di acido. La paura dopo un abbraccio violento. L’ira è tutto quello che non vuoi e che non riesci a vedere se non con gli occhi di un’altra persona. “Quello non sono io…” diresti guardando le tue infami gesta allo specchio, mentre sconsiderate ti lanciano nel baratro della follia. Quante volte hai detto che lei non ti appartiene e tante volte lei è scesa a prenderti. Lo ha fatto in silenzio, nell’intimo assopimento del tuo essere, generando sogni che non si devono e non si possono dire. Scagliata da una rupe maledetta ti ha trafitto senza provocarti alcun dolore. Ma una volta dentro non c’è cellula del corpo che non sottometta al suo dna. Lei decide senza darti opzioni, liberando solo rabbia. Credi di essere il padrone del mondo, ma sei soltanto uno dei suoi schiavi. Ed è solo la tua follia a renderla sempre giovane e senza paura. Pronta a cibarsi di te fino all’osso.


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