A proposito di "Errata Complice" - Stefania Giammillaro
Partiamo dal “viola” dalla
scelta della copertina: un colore di ciò che sfugge alla logica del visibile,
il respiro sospeso tra l’alba e il crepuscolo, quando il mondo trattiene il
fiato e tutto sembra possibile. Una vibrazione antica, un’eco di magia
primordiale che si aggira silenziosa e che porta con sé il segreto di un
abbraccio del rosso febbrile insieme al sussurro gelido del blu siderale,
mescolati in alchimia per dare vita non solo ad un colore, ma una soglia — il
sipario che separa il reale dall’ineffabile, un filo sottile che danza tra gli
astri e le radici profonde della terra.
Viola che vibra come una
lanterna a guidare i viandanti perduti nei labirinti dell’anima. È il mormorio
delle sibille, il riflesso che increspa l’acqua nei pozzi che custodiscono i
sogni dimenticati, nella sua essenza vive un arcano che risuona con le corde
più profonde dello spirito, come se contenesse il canto di mondi che non
abbiamo mai visto, ma che riconosciamo. In copertina, diventa un talismano: un
richiamo per chi ha il coraggio di attraversare la soglia, di farsi complice
dell’errore, di abbandonare la strada sicura per immergersi in un mare di
parole ribelli, sature di bellezza selvaggia. È la stoffa delle visioni nascoste
nelle pieghe della realtà, un colore che non smette di sussurrare, anche quando
tutto il resto tace, è un invito, un portale che si apre su un mondo dove gli
errori sono ferite che illuminano e dove la poesia si aggira, ora carnale, ora eterea,
errando e cospirando con chi ha il coraggio di ascoltarla.
Ed ancora: Viola come livido, testimone
silenzioso di mani che non conoscono il perdono. È un'eco strozzata che risuona
nel ventre, quando le parole si sgretolano e lasciano il posto al vuoto. "il
viola è l'ultimo colore della luce, un confine tra la vita e il mistero"
ed aggiungo un avviso di transito, un confine che non si attraversa indenni; memoria
di un urto, un segno che non si cancella, ma che si aggrappa alla pelle come
una cicatrice invisibile, un promemoria dell’assenza. È la ferita della
dignità, narrata da Chagall quando diceva: "Il viola mi ricorda che
l'anima si tinge del dolore più profondo, e tuttavia non muore". Quando il
corpo diventa complice della violenza: non si spezza, ma si piega, si arrende,
tracciando mappe di dolore lungo le vene, ecco una cartografia d’inferni che
l’anima attraversa senza mai trovare una fine. Eppure, anche nel viola c’è una
promessa: il colore del tramonto, di una luce che penetra le pieghe del giorno,
che brucia senza chiedere perdono, senza arretrare davanti alla colpa.
Qualcuno diceva: "Nel
viola c’è sempre una ferita che si trasforma in forza", così in questo
libro "il viola spinge verso
l’infinito con l’umiltà del dolore"*, per dirla con Kandinsky.
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Ed ecco, nella poesia di Stefania
Giammillaro, l’incipit s’innesta nel solco di carmi che mettono a nudo la
ferocia dell’esistenza, il dolore della memoria mentre l’autrice non si limita
a descrivere l’atmosfera, ma diventa cifra stilistica, strumento di indagine,
lente d’ingradimento di microcosmi privati che diventano macro ed universali. La
struttura della parola si accompagna ad immagini drammatiche tali da generare un
lessico carico di corporalità ricucita di trame violente – coltelli, spine,
stimmate, grumi di sangue. Ci troviamo di fronte ad un “teatro mentale” che
riecheggia (probabilmente) una dolente esperienza autobiografica. Parole che
dicono e contraddicono, si muovono tra ricordi viscerali e frammenti di una
realtà trasfigurata, rendendo il non-detto e il simbolico centrali nel dialogo
col lettore.
La silloge si articola in tre
sezioni, tracciando un percorso di caduta e risalita. “Il peccato” e “La
colpa”, che riecheggiano la struttura morale della tragedia greca, culminano in
una liberazione che trova eco nella figura di Antigone, simbolo della
superiorità della legge morale e della ribellione al patriarcato.
Parallelamente, il richiamo ai grandi russi Tolstoj e Dostoevskij evidenzia una
tensione etica che riflette il rigore del cattolicesimo di fronte al male. Il
cuore pulsante è un’analisi del rapporto amoroso insano, dove la violenza –
verbale e fisica – diventa lo specchio di una dinamica di dominio. L’amante,
oggettivato e disumanizzato, si muove in un intreccio di dipendenza e
sofferenza. Qui la poetessa sembra incidere le sue parole su una memoria ancora
sanguinante, restituendo al lettore una litania di tormento e supplica, che si
risolve infine nel perdono e nell’auto-perdono.
La chiusa della silloge, un
epilogo in dialetto siciliano, recupera la purezza dell’infanzia e la forza
emancipativa della tradizione. Il dialetto diventa allora il linguaggio della
redenzione e della libertà, in contrapposizione alle gabbie sociali che
condannano e disprezzano chi si ribella. È qui che il “pesce rosso”, metafora
della donna costretta a guardare il mondo da un “vetro di roccia”, trova la
forza di riscrivere il proprio destino: “Solo la rosa/ può combattere le sue
spine”.
Una poetica confessionale e
universale
La scrittura di Giammillaro si
colloca nell’ambito della poesia confessionale, vicina a voci come Sylvia Plath
e Anne Sexton, da cui eredita la tensione formale e il coraggio di esplorare il
dolore. Tuttavia, mentre la Sexton sfida la tradizione religiosa, la poetessa
siciliana la utilizza come ancora e punto di ripartenza. La preghiera canonica
dell’“Atto di dolore” diventa allora la chiave per comprendere una religiosità
che non nega la fragilità umana, ma la sublima.
Errata Complice, titolo della
silloge, sottolinea la consapevolezza di una responsabilità condivisa e il
desiderio di redenzione, riconoscendo di essere stata complice della propria
prigionia, troppo a lungo tollerante, per trasformare, quest’ammissione in un
manifesto di libertà, con un alto valore testimoniale capace di offrire a chi
vive situazioni simili uno specchio e una via di fuga.
Proviamo a fare un
esperimento che spesso porta frutti particolarmente preziosi, ad estrapolare
dalle sue parole un “poema o canto composito” che rappresenta, quasi, una sorta
di sintesi “complice” delle principali tematiche presenti
Lo facciamo usando i primi
versi di alcune liriche…
I
Questa lugubre mania di vivere,
questo recondito scherzo del respiro,
ti trascina, anima fragile, nel vuoto.
II
Viaggiano le perplessità dei giorni,
lungo crepe che odorano di pianto,
mentre il tempo si strappa tra i denti.
III
Ai sensi di una legge non scritta,
si proibisce alla pioggia di nascere,
mentre il mare ulula fame ancestrale.
IV
Nascondimi al volo dei gabbiani,
inginocchiami alla colpa muta
del tuo abituale mentire.
V
Provo a indovinare il tuo amore
nel gioco di scatole cinesi,
un mistero che non si slega mai.
VI
Madri, accogliete i grumi di sangue
strappati dal ventre della colpa,
mentre si tace il sospiro della vita.
VII
Ascolta, sulla soglia dell'ombra,
il grido che s'infrange in cenere:
si consuma il tempo, si spegne l'eco.
VIII
Dell’amore non ricevuto,
hai pagato il prezzo con la carne,
e i tuoi occhi brillano di perdono.
IX
La geografia del corpo
non redime il peccato,
ma il dolore accarezza come bruma.
X
Ti parlo, Vuoto,
nella domenica spenta d'autunno:
brindo al tuo silenzio che mi ascolta.
XI
Lasciatemi qui,
tra il punto e virgola della ferita,
a mordere il sangue del coraggio.
Da qui si apre la percezione
assoluta e inequivocabile di “dolore, colpa, perdono e vuoto” che si allungano
sulla linea di confine capace di separare l’anima dal corpo e creare un
collante che non permette all’una di evaporare per abbandono. In questi “undici
comandamenti della donna” viene fuori la percezione esplorativa del sé,
del suo modus agendi, l’imprinting poetico del "vivere" diventa
"mania lugubre" e "facezia recondita", una lotta tra la
fragilità umana e l'irraggiungibilità di un senso.
L’uso dell’enjambement, dei versi
spezzati e delle metafore intense ("le crepe degli affanni", "la
geografia del corpo") crea un ritmo che alterna l’urgenza del dire al
silenzio del sentire. L'assenza di rime scrolla la poesia da ogni orpello e la
spinge, cruda e diretta, nell’immaginazione del lettore, mentre scenografie
violente e dolci coesistono, suggerendo un contrasto dualistico e per questo tipico
della condizione umana.
Le parole, in Giammillaro, emergono
come fondamenta da cui redimere il disincanto e la percezione dell’errore. Di
fianco all’esperimento poetico proposto si delinea, netta, la capacità di scavare
e scavare nella profonda dimensione intima ed umana dell’essere che si agita
dentro il suo humus personale oltre ad esplorare con toni intensi e viscerali
le perplessità, il dolore, l’amore e la disillusione che si riflettono nell’universale.
I perplessi
giorni e la vanità del tempo introducono un motivo ricorrente: la
fragilità delle lancette e il peso delle angosce quotidiane. Il tempo,
simbolizzato dalla vanità che muore, è immagine pascaliana di un infinito che
scorre inesorabile, mentre l’uomo resta inchiodato alla sua condizione finita. La
crepa è una ferita aperta, uno spiraglio verso una verità nascosta. Qui
si può intravedere la riflessione di Albert Camus: il vivere è un atto di
resistenza nell’assurdità del mondo.
Il coltello come
mantra devoto e i cèri spenti di un baccanale introducono una scena
quasi rituale: un atto di fede rovesciata, dove il sacro si dissolve nel
profano. Il corpo, oggetto di sofferenza e desiderio, è il fulcro del dramma:
la poesia diventa un canto quasi orfico, un richiamo alle origini ancestrali
della materia umana, fragile e martoriata. Il tema della colpa è qui centrale,
sospeso tra la dimensione religiosa e quella laica (inginocchia la colpa al tuo
abituale mentire).
Nelle poesie dedicate alla figura
della madre il femminile è sacralizzato e, insieme,
violato. La madre diventa simbolo arcaico e universale, una presenza salvifica
e dolorosa, un grembo che genera e un ventre che resta vuoto. Si evocano qui
figure come la Magna Mater dei culti antichi e la Pietà cristiana, dove il
dolore di Eva si fa voce di una condizione umana universale richiamando Simone
de Beauvoir, dove il corpo di donna è terreno di scontro tra libertà e
imposizione, tra desiderio e annullamento. I versi, con linguaggio potente e
visivo, gridano l’ingiustizia della privazione e l’urlo della vita mancata.
Poi l’amore, croce
e delizia, diventa un paradosso: benedizione e condanna, un atto
di fede e una menzogna. Tutte le eredi del primo ventre peccaminoso,
di Eva, si specchiano nella bellezza maledetta (Maliritta
biddizza) riconoscendo il peso di un’identità che è, insieme, una croce da
portare. Qui si percepisce l’eco delle riflessioni di Roland Barthes, dove
l’amore si intreccia con il linguaggio e il silenzio, diventando una prigione
di parole non dette e verità sospese. Versi attraversati da immagini di viaggio
(ponti, vele, porto alla deriva) si trasformano in simboli di un'esistenza che fugge
da sé stessa. Non c’è approdo sicuro, non c’è pace nello sguardo: il viaggio
diventa metafora dell’alienazione e della ricerca infinita di un senso. Qui
risuona Nietzsche: la vita come un cammino senza meta, dove l’uomo è chiamato a
danzare sul baratro dell’ignoto.
Il buio, presente
nelle immagini poetiche, è simbolo della mancanza di risposta, dell’assenza di
luce interiore. La soglia che attende è il limine tra vita e morte, tra
speranza e disperazione. Si percepisce un senso di abbandono, un’angoscia
esistenziale che riecheggia nella letteratura di Franz Kafka: l’attesa come
condizione perenne dell’uomo contemporaneo, sospeso in un limbo senza
redenzione.
L’amore non ricevuto
diventa oro filtrato dalle lacrime, una ricchezza dolorosa che si dona ai
poveri di spirito. Il perdono, chiesto per peccati mai commessi,
è un atto di purificazione: un richiamo alla dimensione cristiana del
sacrificio, ma anche un riscatto tutto umano nella sofferenza.
“Sei al punto più alto della luce
/ il centro della croce / che non perdona” e si apre il simbolo più alto di
conoscenza e rivelazione, si unisce alla croce, metafora della sofferenza
redentrice e della colpa inevitabile. La luce, qui, non è consolazione ma
limite e sembra di rileggere Nietzsche in “Così parlò Zarathustra”: abitare
l’essenza stessa della sofferenza, il luogo della scelta e dell’irrevocabilità.
L’autrice concepisce l’interrogazione suprema sulla vita che non perdona
l’incertezza e la debolezza come l’ultima costola: origine mutilata, separazione
ancestrale. Il brivido dei sensi si scioglie nel riconoscimento amaro di ciò
che manca: la conoscenza reciproca, il desiderio inappagato che resta
“agrodolce”, intraducibile nella logica comune. Qui si percepisce una visione tendenzialmente
Schopenhauriana che definisce il desiderio come tensione infinita verso
qualcosa che, una volta raggiunto, si dissolve nell’insoddisfazione.
Ed ancora, lo specchio,
diventa simbolo di identità e illusione, introduce un paradosso esistenziale:
conoscerci meglio significherebbe rinunciare alle proiezioni e confrontarsi con
la cecità dei sentimenti. Come nel “Narciso” di Ovidio, lo specchio può essere
ingannevole, una superficie che restituisce solo il riflesso di ciò che
desideriamo vedere. La poesia qui suggerisce l’urgenza di uno sguardo più
profondo, sganciato dalla superficie.
Il navigare, non
come viaggio e transitorietà, ma figura romantica che “disegna vele” al
tramonto: evoca la volontà umana di lasciare tracce, di dare forma
all’indefinito, mentre il vento e il tramonto suggeriscono precarietà, un moto
perpetuo verso l’ignoto. Come avvenne per “Ulisse”, c’è un desiderio di
oltrepassare i limiti, pur consapevoli che non esiste “porto alla deriva del
viaggio”. Non c’è approdo definitivo, solo il perpetuarsi dell’erranza
esistenziale. Qui la pace è irraggiungibile perché lo sguardo – simbolo
della coscienza – è inquieto, insoddisfatto come per Heidegger per cui l’essere
umano è un “essere-per-la-morte”, sempre in tensione verso la propria
finitudine.
La colpa riprende
l’inquietudine di un’identità spezzata, quella della donna amante e
abbandonata, che cerca di mascherare il dolore dietro la finzione e la
negazione. Si intreccia poi con la vergogna, come nelle tragedie
greche dove la figura della donna è sempre in bilico tra destino e
responsabilità personale. Questa donna, vittima e artefice, ricalca l’immagine
di Medea, prigioniera del suo amore assoluto e della distruzione che ne
consegue. La voce del testo denuncia l’ipocrisia di chi osserva il dolore
altrui con distacco, trasformando l’intimità della sofferenza in spettacolo.
Le scarpe diventano,
invece, metafora del cammino esistenziale, delle generazioni che si succedono
tra sacrifici e capricci. Quelle del padre portano il peso del silenzio, quella
del figlio il rifiuto di un passato contadino. Ma al bambino – simbolo del
futuro – viene data una possibilità: “Prova queste scarpe”, un invito a
camminare libero da destini ereditati.
La cura, come in
Heidegger: ogni generazione è chiamata a farsi carico della propria esistenza,
senza cedere alla fuga o alla rassegnazione e la poesia diventa monito: il
passo, la scarpa, il cammino sono ciò che definisce la dignità di un individuo.
La memoria della
sofferenza è nel disegnare a “matita l’incombenza di una
minaccia” L’urgenza etica: il dolore della terra bruciata e il freddo che
invade i sensi sono l’immagine concreta di una tragedia collettiva, come un
grido che si arresta nel silenzio. Disegnare come volontà di testimonianza,
come se la poesia stessa fosse chiamata a fissare il dolore nella memoria del
mondo, per riscattarne la dignità.
Poi il vuoto che
diventa presenza tangibile e assume una dimensione quasi corporea. Non è più
assenza, ma un’entità con cui dialogare, un compagno scomodo che s’insinua
nella quotidianità, nei silenzi delle domeniche, nella banalità degli oggetti
come l’agenda o il bicchiere di vino, sino a diventa simbolo del mancato
appagamento esistenziale, della ricerca di un senso che sempre sfugge come fu
per Sartre (vuoto e il nulla si manifestano come costitutivi dell’essere umano,
che si trova condannato alla libertà di dare senso a ciò che appare insensato).
Il corpo diventa muscolatura
e pelle di dolore, ferito, marchiato da rughe e addii, ma anche luogo di
rinascita e resistenza.
La carne, spesso
associata al dolore, viene riscattata attraverso un processo di conoscenza e
accettazione: il corpo è un "ponte" tra l’individuo e il mondo, lo
strumento attraverso cui facciamo esperienza dell’esistenza.
Nel tempo, poi,
come forza che consuma, che ricorda e ricostruisce, nella tensione tra il vero
e l’illusorio, tra il tempo lineare e quello interiore, riecheggia il pensiero di
un’esistenza autentica si realizza solo nell’accettazione della nostra
finitezza, mentre l’io lacerato è alla continua ricerca di una verità o di un
perdono. La figura del doppio, l’ombra, il riflesso, sono elementi ricorrenti
che segnalano l’incertezza identitaria: "Chissà se traduci o interpreti /
Chissà se ti accorgi mentre mi perdi".
Qui emerge un’angoscia
contemporanea legata alla perdita di stabilità e all’alienazione, tanto cara a
filosofi come Bauman, che descrive la modernità liquida come uno spazio di
identità in continuo mutamento
Il rapporto con il divino
è un altro tema centrale. Dio è sfidato, vinto, cercato e, infine, perdonato.
Nella poesia "Ho vinto Dio", la fede si confronta con il dubbio e la
fragilità dell’umano, ma trova, paradossalmente, proprio nel dolore e nella
resa un momento di redenzione: eppure il percorso verso il perdono
non è lineare; richiede il coraggio di guardarsi dentro e di abbandonare le
illusioni. In questo contesto, il perdono non è solo spirituale, ma anche un
atto di riconciliazione con se stessi.
L’Epilogo come Incipit di
una Vita Capovolta è un denso frammento poetico che intreccia immagini
ancestrali, risonanze intime e toni di denuncia con una forte matrice
simbolica. La narrazione poetica si sviluppa su vari livelli: il tema del silenzio,
della solitudine, e della rinascita, e si mescola con riferimenti religiosi e
familiari, creando un'atmosfera sospesa tra il sacro e il terreno, il reale e
il metaforico.
“Muta sono / come pesce senza
sangue / che trema a schiena piegata"
Cosa si sviluppa, qui, se non impotenza
e un senso di sofferenza, uno stato di vulnerabilità estrema, inerte, quasi
priva di vita? La schiena piegata suggerisce fatica, sottomissione o un
peso interiore difficile da sopportare, con un simbolismo che si concentra
sull'incapacità di comunicare (lettera strappata) e sulle ferite persistenti
(la lisca). La lisca può rappresentare un residuo doloroso, una
parola non detta che soffoca nella dimensione di un'immagine liturgica, un
simbolo di ritualità familiare, ma anche un vuoto relazionale: sedersi da sola
davanti a ciò che è "sacro" sottolinea un senso di esclusione e
isolamento.
Nell’innesto del dualismo tra madre
e figlia la poetessa esplora il tema della rinascita ciclica della discendenza,
radicato in un legame profondo ma allo stesso tempo problematico. È come se
l'identità personale si duplicasse e si frammentasse in un eterno ritorno dove
la morte sostituisce il parto come simbolo del dolore estremo, trasformando
l'autrice in una figura già stanca e consumata, che sopravvive a una sorte
crudele. Il richiamo, poi, alla figura delle tre scimmie ("non vedo, non
parlo, non sento") ribalta il significato tradizionale del silenzio
virtuoso: qui diventa un rifiuto, un peso ereditato e lasciato come
condanna.
Ma su tutto cala una "Una
ninna nanna d’amore / che come scirocco” (elemento naturale) porta con sé una
memoria collettiva e arcaica di amore materno trasformato in un monito duro,
definitivo. Il testo si chiude con un messaggio amaro e rivelatore: lo sguardo
diventa attivo solo quando il cuore è ormai vuoto. È una critica al ritardo con
cui si arriva alla consapevolezza o al valore di ciò che si perde.
Errata Complice è una mappa Antropologica
della Donna (peccatrice e redenta). Una complessa cartina geografica, storica,
esistenziale, ed anche dialettale*, in cui silenzio e solitudine,
identità e ruoli familiari, memoria e condanna (come lascito pesante ed
ineluttabile), ciclo della vita e della morte (continuamente rielaborati con
toni lirici, simboli, ed un linguaggio denso di metafore e simboli, nella
struttura di un ritmo volutamente spezzato, come gli errori che riflettono
l'urgenza e il peso emotivo delle parole, insieme alla sacralità di immagini
ancestrali), croci e delizie dell’amore, s’ intrecciano, si spezzano, si
riannodano, in un tempo senza tempo della realtà scarnificata della finzione,
ridotta all’osso, vera.
*
A proposito del dialetto,
in Errata Complice, si configura come lingua primordiale, “la lingua di Eva”
l’unica capace di tornare all'origine della parola come atto fondativo e
autentico, il linguaggio della prima umanità, quello che conserva ancora il
calore della terra, il suono della carne e la forza del gesto, restituendo una
dimensione arcaica, ma profondamente intima, del comunicare.
Qui, come innesto poetico, non
è semplicemente un codice linguistico, ma diviene una fonte di verità: uno
strumento che, nella sua semplicità e immediatezza, si sottrae alla corruzione
e all'artificio del linguaggio contemporaneo. La "lingua di Eva" è
quella che pronuncia il mondo per la prima volta e, conseguenzialmente, una
donna, Gea, la terra. Una lingua che non nasconde, ma rivela la realtà nella
sua essenza più pura e non mediata. Questo perché il dialetto possiede un
legame profondo con le radici, con il vissuto individuale e collettivo. Ogni termine
porta con sé una storia, un suono, una vibrazione che parla di vita, di terra,
di dolore e di speranza. È una lingua che sa di corpo e anima, e che diviene
strumento di evocazione e memoria.
Per l’autrice la parola
dialettale è il nucleo attorno a cui ruota la ricerca poetica, non solo un
mezzo espressivo, ma un atto sacro, capace di costruire e rivelare. La
parola non è mai vuota o convenzionale: è densa, intrisa di significati, di
echi, di rimandi e diviene un terreno fertile per immagini potenti, stringenti
ed evocative. Parla a quella genealogia del cuore prima ancora che alla
mente, si rivolge ai cinque sensi, e si fa corpo, vista, udito, respiro e
permette di superare i confini del tempo e dello spazio, toccando corde
universali.
Dialetto che non è nostalgia, ma lingua vivente, taumaturgica, capace di contenere l'intero spettro delle emozioni umane e di curarle, per quel poco che si riesce.