A cura di Mino Mastromarino
Carsicamente compare nel discorso pubblico il richiamo alle radici. Le radici culturali dell’Europa, le radici cristiane, le radici familiari, le radici dell’anima. Ma l’uso inconferente e granulare di una parola – si sa - ne causa e denuncia la perdita di significato. Questo lemma sommamente figurativo è utilizzato, a fini di propaganda, dai movimenti localistici, identitari e spesso xenofobi. E’ anche adoperato, indiscriminatamente, in triviali operazioni di grottesco folklore, di promozione (pseudo) turistica, di altrettanto maldestro neuromarketing. La metafora delle radici resta comunque un potente dispositivo di cognizione del mondo e di sé stessi, potendo concorrere a formare la memoria collettiva e personale. Muove dall’inevitabile bisogno di conoscere e riconoscere il nostro passato, di gruppo e di individui. Rimanda a un albero rigoglioso, cioè a un corpo vitale sostenuto e nutrito da una ramificazione vegetale interrata. Una rappresentazione ideale che, attraverso l’ancoraggio al sottosuolo, mira a indicare lo sviluppo, il cangiamento e il divenire in direzione verticale, quindi espansiva. Il suo senso risiede dunque nella metamorfosi, presupponendo la ‘radicata’ condivisione di un determinato spettro simbolico. La società globalizzata versa – al contrario - in una condizione di totale deficit simbolico, e mena stupidamente vanto della triste scomparsa di ogni rito. Perciò, in luogo di adagiarci sull’utilizzo pervasivo, ‘prezzemolare’ del termine ‘radici’, sarebbe meglio fare qualcosa per riappropriarci della spiritualità della vita. D’altronde, ‘anima’ significa ‘soffio, vento’. E’ un guaio quando l’allegoria ‘radicale’ viene asservita all’affermazione del concetto di identità, che, per definizione e all’opposto, si fonda sulla immutabilità, sulla fissità, sulla rigidità, giacchè tende all’immedesimazione con una natura originaria, pura e cristallizzata che come tale non può e non deve modificarsi. Del resto, un simbolo ( le radici dell’albero), costretto in posizione servente di un’ astrazione ( l’identità collettiva), non funziona. Tanto che – è stato acutamente sottolineato - le radici danno un’immagine dell’identità che paradossalmente, nonostante il rigoglìo della pianta, è più sterile di altre immagini, perché è determinata e deterministica. Le radici, come idea istituente di una identità comunitaria, integrano infatti una contraddizione in termini. Al riguardo, basterebbe chiedersi banalmente se il paradigma delle radici sia estensibile anche alla foresta: il problema non si pone e non si è mai posto, per la semplice ragione che le radici di una foresta (gruppo di alberi) non possono che corrispondere alla sommatoria delle radici di ciascun albero che la compone. In altri termini, le radici di una foresta on esistono né sono autonomamente concepibili.
L’evocazione rizomatica nasconde un’altra trappola di senso, riscontrabile specialmente nelle vacue elucubrazioni sulle tradizioni popolari. Ad esempio, si ritiene che una tradizione sia tanto più autentica e solida quanto più antiche ne siano le presunte radici. Ma la loro individuazione e collocazione storica non sono (quasi ) mai precisate, perché scientificamente impossibili o arbitrarie o disfunzionali alla contingenza politico-sociale. La vitalità, la durata e la permanenza di una tradizione dipendono dalla sua rituale iterazione, non già dalla distanza antiquaria della sua (presunta) genesi.
La ricerca delle origini – al di fuori di ogni interesse antropologico – può avere esiti pericolosi, allorchè assuma la forma della nostalgia della purezza, di un fantasmagorico stato ancestrale. O esilaranti, come succede spesso nel campo culinario e toponomastico ( i fagioli del mio paese sono originali, quelli del tuo, no; c’è sempre un borgo più medievale degli altri).
A proposito delle radici alimentari italiane, comunque non dimentichiamo che il pomodoro, i peperoni, i peperoncini, financo la patata provengono dall’ America; mentre per la mela e la melanzana siamo debitori dell’Oriente ( sic ! ).