UNO SCRICCIOLO

Ricordo ancora il suono della sua voce. Se chiudo gli occhi posso sentire la melodia del timbro. Mi faceva salire sulle sue ginocchia, arrotolando il grembiule a fiorellini bianchi. Poi, con un fazzoletto profumato di lavanda, mi puliva gli angoli della bocca mentre io, imperterrita, continuavo a mordere un tozzo di pane su cui, lei stessa, aveva spalmato un cucchiaio abbondante di Nutella. Così iniziava il racconto, la storia di Scricciolo, l’uccellino che abitava nel bosco delle castagne. Scricciolo si svegliava ogni giorno alle prime luci dell’alba ed era l’unico che acchiappava vermi ed insetti per sopravvivere all’inverno. Sfidava le aquile che volavano basse, le volpi che si appostavano dietro i cespugli, i cacciatori che sparavano ad ogni cosa si muovesse. Non aveva paura o, se ne aveva, sapeva che la paura lo avrebbe fatto morire di fame. Sarebbe morto comunque e per questo tentava. Gli altri uccelli, invece, ozianti nel nido, rimanevano a bocca aperta, pigolanti di fame. La paura dei pericoli, l’inerzia di spiccare il volo, li avrebbe, ben presto, condannati a morte. 
Ed io che non capivo il senso, pur amando la storia per la fantasia che generava, solo ora comprendo. Lo hanno detto tutti: filosofi, scienziati, finanche i poeti hanno tracciato qual è la linea da seguire. Quella che alcuni chiamano carpe diem, altri definiscono con il proverbio “chi ha tempo non aspetti tempo” e che io identifico, semplicemente, in uno scricciolo. Lui viveva il suo tempo. Tempo che, come diceva mia nonna, non doveva essere sprecato. Era il suo modo per dirmi: se devi fare qualcosa falla adesso. Eppure questo ammonimento a volte pesa sullo sterno come un sasso. Magari per una ragione che apparentemente non è quella che sembra. Il più delle volte è paura. Paura di prendere una decisione perché la domanda che avanza è sempre quella: “e se sbaglio?” 
Ma di cosa si nutre la paura? Di certo si nutre della nostra insicurezza. Ne fa pasti luculliani ogni volta che noi la facciamo crescere, come l’erbaccia in un giardino lasciato incolto. Di sicuro si nutre della nostra fragilità. Fa diventare il pavimento di vetro, inizia a farci sentire lo scricchiolio, sussurrandoci all’orecchio: “guarda che si rompe, cadi!”. Istintivamente guardiamo di sotto, vediamo la voragine pronta a risucchiarci senza possibilità di salvezza: da lì cadere significa sfracellarsi. Di sicuro si ciba delle nostre incertezze. Magari le prende dalla testa non appena le sforniamo col pensiero. Pensiero che divaga e genera il dubbio del “se fare quella cosa”. Allora il cuore inizia a galoppare, corre lontano ma noi siamo fermi, dispersi nel nostro essere immobili. Capita quando ci troviamo di fronte ad una persona che ci chiede di scegliere. Una persona che ci toglie il fiato per quella cosa che ci bussa da dentro e chiamiamo sentimento. Sentimento d’amore, oppure d’odio, oppure di entrambe le cose. Aprirci al suo ingresso o lasciarla fuori? 
Capita quando la scelta, il più delle volte, sembra un enorme campo di battaglia con bombe che esplodono ovunque. Bombe che non hanno alcun ritegno dei corpi e li maciullano come carne per polpette. Eppure, nonostante tutto, quello che ci salva è agire. E’ scegliere, fare il passo, prendersi la responsabilità, farlo adesso. Non è fare domande che ci aiuta a vivere, è dare delle risposte che getta il cemento nelle fondamenta per farci crescere. E non importa che siano giuste o sbagliate, vanno date. Anche gli errori, soprattutto gli errori, ci fanno costruire il tetto. Ci fanno diventare adulti, responsabili e non eterni indecisi. Impareremo da uno scricciolo che è meglio svegliarsi all’alba, osservare il mondo e le sue contraddizioni, avere gli occhi ben aperti sul presente e, comunque, spiccare il volo. 
E’ meglio scendere a patti con la paura piuttosto che continuare, anche da svegli, a dormire. Questo perché anche il fallimento risulta preferibile al rimorso di non averci provato. Perché non provarci vuol dire fare come gli altri uccelli. Significa arrendersi all’ignoto inverno che prima o poi pasteggerà con le nostre anime. Anime rinchiuse nei corpi immobili, ancora nel nido. 
Anime affamate di risposte e defunte con la bocca aperta, magari in procinto di darle (quelle risposte) quando oramai sarà troppo tardi.  

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