*
Scrivo questa nota da semplice lettrice appassionata di poesia, nella speranza che altri spossano avvicinarsi alla bellezza di questa forma d'arte. Nella sua ultima silloge “Roma sotto a ‘sto celo”, Marco Masciovecchio concentra lo sguardo su semplici scene di vita quotidiana della sua città, cogliendone l’essenza. Attraverso il dialetto romano, il poeta ritrae una Roma complessa e contraddittoria, insieme cruda e umana. I luoghi topografici e storici e le diverse figure umane che popolano la città diventano punti di partenza per riflessioni profonde, occasioni di introspezioni psicologiche e insegnamenti morali. Non mancano ricordi che riaffiorano con tutta la forza dell’emozione.
Grazie alla sua arte poetica, Masciovecchio cattura il lettore sia per la vivacità delle immagini, veri e propri ritratti, sia per la musicalità del dialetto che conferisce immediatezza e calore ai versi. L’intera raccolta è caratterizzata da genuinità, concretezza e naturalezza ritmica. La scelta del dialetto si fonda sicuramente sulla consapevolezza della sua ricchezza espressiva: esso è colore, perspicacia, arguzia e saggezza, patrimonio culturale e linguistico capace di descrivere con veracità la vita quotidianità. Al tempo stesso l’uso del dialetto testimonia il profondo legame emotivo del poeta con Roma, città che ha formato la sua identità umana e con la quale egli si identifica pienamente.
Il rapporto intimo con la città eterna emerge in modo emblematico nella poesia LA MIA CITTÀ, nel verso “Io l'amo e l'odio come sta vita mia". Molti luoghi della capitale diventano specchio delle sue riflessioni e delle sue critiche, soprattutto nel contrasto passato e presente, antichità e modernità: “La mia città sta' sempre in guerra/ tra ciò ch’è oggi e quer che era”. Tale opposizione si manifesta anche sul piano territoriale: Roma è estesa ben oltre il raccordo (“La mia citta cià…/ un doppio anello che prova a contenerla. / Ma lei, come ‘na macchia d’oro sopra ar fojo / nun s'aritira mai, s'espanne"). La difficoltà di vivere nel centro ha comportato lo spostamento di molti romani in zone periferiche, lontano dal cuore storico, culturale e religioso. Il poeta, tuttavia, auspica un ritorno al centro, luogo dell’anima e delle radici (“La mia città m'ha cacciato via / lontano da tutto e da tutti, oltre l’ultima periferia./…ma arriverà quer giorno che ce riabbiterò dentro ar raccordo, / passeggerò leggero pe’ le vie der centro…”).
Il contrasto antico / moderno si delinea anche sul piano spirituale, come si evince dai veri “La mia città cià tante chiese / soltanto all'apparenza aperte /ma sempre chiuse, ottuse. / Er gregge s’è smarrito, senza er pastore".
Elemento centrale del paesaggio romano è il cielo, che nella poesia ER CELO SOPRA ROMA diventa segno di una speranza più grande, una felicità eterna: “Er celo sopra Roma / pure quando s'annuvola e se fa' nero, / cià sempre ‘no spicchio de sereno. / Appare come un dipinto, / fatto da Iddio, / p'aricordacce che solo là ce sta’ er Paradiso".
Un ulteriore tema è il rapporto tra la maestosità del mondo naturale e la fragilità dell'uomo. In QUANN' ERO RAGGAZZO, il poeta si sofferma sul Pincio, storica terrazza panoramica da cui il tramonto appare come un “ben de Dio", mentre l’essere umano è “un ombra ch’attraversa er tempo”, soggetta alla volontà divina; il poeta, referendosi alla vita dell’uomo, ci rammenta che “quer tempo nun lo decidi tu, lo comanda Iddio./…Ricorda, nessuno è eterno”.
Una cifra costante della poesia di Masciovecchio è la denuncia di ingiustizie sociali e delle miserie del mondo. L’autore mostra profonda empatia verso gli ultimi: chi vive e muore in solitudine, l’orfano, il tossicodipendente, la vittima di violenza, l’operaio sfruttato, il lavoratore morto sul luogo di lavoro, la moglie del detenuto costretta a fare la colf di giorno e la prostituta di notte. Particolarmente intensa è la figura di “er matto”, colui che perde il fragile equilibrio psicologico, colui che è considerato insensato per il suo modo di vedere le cose, di agire e di vivere, ma che, paradossalmente, è l’unico a vivere con pienezza e passione e anche con lucidità e consapevolezza, gridando “Vojo morì da vivo!” Secondo il poeta, i cosiddetti “matti” sono, dunque, i veri saggi, mentre ”le persone comuni si credeno tutte vive, ma so’ già morti tutti quanti”.
Alla ricchezza della silloge contribuiscono altri temi esistenziali e riflessioni sulla natura dell’essere umano: l’impossibilità di sottrarsi al destino (“…è tutto scritto, nun c’è antra via”); l’ineguaglianza sociale (“…chi sta’ in arto sempre più in arto sale / chi sta’ in basso sprofonna e cade / La rota gira, ne so’ cosciente / ma a pijallo in culo / è sempre la pora gente!”); il dolore per la fine di un amore (“…un ber giorno, / …hai fatto la valigia, sei andata via, /’na lettera lassata sur commodino -amore mio me so’ sbajata, / nun abbasteno du’ cori e ‘na capanna-”); l’incapacità di migliorare dopo le tragedie, come suggerito nel riferimento alla pandemia (“Eppure ne dovevamo da uscì mijori. / Invece eccoce qua, ancora più incazzati / bestie feroci sortite da le gabbie / pronte a sbranasse, mica pe’ fame, / ma solo pe’ godè ner fasse male”).
Riflettendo sui comportamenti umani contemporanei, il poeta denuncia la dipendenza dal digitale (“Nell’era diggitale / la connessione è fede /… semo tutti ar servizio de ‘sto padrone”) e la solitudine diffusa e l’indifferenza sociale ( …”a volte se soride, altre se piangne, / poi tutti da soli se more”).
Diversi i valori che Masciovecchio invita a custodire. Emergono, insieme all’amore, la libertà, definita “un giojello anniscosto drento ar còre” e l’autenticità come rifiuto di ogni compromesso (“Nun me ne frga un cazzo / se nun sto drento ‘no schema predefinito!.../ Quello che penso dico, /…er culo, in vita mia, nun l’ho mai dato”). Il poeta apprezza la capacità di riconoscere la bellezza e la bontà anche nelle persone più umili. Gesù, ricorda il poeta, non si trova nelle chiese vuote di senso, “dove se piange er morto e se fotte er vivo”, ma tra i poveri, “sotto un cavarcavia coll’antri Cristi” che condividono pane e speranza. Al lettore viene rivolto anche l’invito a godere della verità e dei sogni, e ad avere cura dell’amore, che come una scintilla necessita di essere alimentata per diventare fiamma (“ce vole tanta cura e tanta legna”).
Termino questa mia nota con la preziosa riflessione con cui si conclude la silloge: leggere e scrivere non bastano se le parole non lasciano un segno nella mente e nel cuore dell’uomo (“Se tutte ‘ste parole versate sopra ‘sti foji / arimbarzano senza fa’ sosta ner cervello, /… senza lassatte un segno drento ar còre”).
.jpg)